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di NICOLA SALVAGNIN 22 set 2016 12:06

Televisione. Pecunia non olet...

Pecunia non olet. È certamente così per Alberto, Camilla, Federico e Giovanni e forse anche per il milione di telespettatori che lo scorso 12 settembre si è sintonizzato su Rai Due poco prima della mezzanotte, per guardare “Giovani Ricchi”

Pecunia non olet. È certamente così per Alberto, Camilla, Federico e Giovanni e forse anche per il milione di telespettatori che lo scorso 12 settembre si è sintonizzato su Rai Due poco prima della mezzanotte, per guardare “Giovani Ricchi”. Si tratta di un docu-reality che racconta la vita di quattro giovanotti italiani, ricchi, anzi ricchissimi, e delle loro giornate tra automobili di lusso, vacanze da sogno, shopping compulsivo. Tutto naturalmente fotografato, filmato e condiviso sui social network. Come da manuale, le critiche non sono tardate ad arrivare. Occorre, però, operare alcuni distinguo.

Da un punto di vista formale, il documentario curato da Alberto D’Onofrio è ineccepibile. Come un antropologo navigato, l’autore ha radiografato uno spaccato di popolazione tanto surreale quanto veritiero: quella dei “Rich kids”, espressione ormai codificata per indicare quei ragazzi dal portafoglio rigonfio che vivono una vita di eccessi e la condividono su Instagram. Nello stesso tempo, è necessario chiedersi perché la Rai ha deciso di comprare un prodotto i cui contenuti non ne riflettono la mission, scimmiottando emittenti private che fanno del racconto di esistenze al limite l’ossatura della propria programmazione. Le risposte potrebbero essere tante. Ciò che è certo è che le decisioni le prendono i direttori e capistruttura.

Tutto è raccontabile, ogni esperienza di vita anche quella apparentemente più insignificante, in nome di un tornaconto economico fondamentale in un’epoca in cui la televisione “tira” meno e in cui la creatività autoriale ha esaurito il suo carburante più pregiato. Programmi come “Giovani ricchi”, quindi, non creano meccanismi di emulazione ma normalizzano situazioni e contesti che normali e (in molti casi) reali non sono. Il vero pericolo, quindi, è quello dell’omologazione e dell’assuefazione a mode ingannevoli, a tormentoni sterili, a personaggi stereotipati. A una realtà inconsistente proposta da una televisione senza identità, indifferenziata e proiettata su logiche esclusivamente commerciali. In questo calderone la Rai non dovrebbe entrarci, anzi dovrebbe difendersi e difendere i suoi spettatori da queste derive. Se lo fa (come in questo e altri casi) sbaglia e si rende colpevole di un (dis)servizio pubblico antieducativo ed esclusivamente orientato alla schiavitù dello share.

NICOLA SALVAGNIN 22 set 2016 12:06