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Brescia
di M. VENTURELLI 10 giu 2016 00:00

Don Marco Forti. Dio ha i colori del Grest

Don Marco Forti, 28 anni, è originario della parrocchia di Mazzano. Negli anni della formazione in seminario ha prestato servizio nelle comunità di Cologne, Flero, Roè Volciano. Negli ultimi anni è stato come diacono prima a Odolo e poi a Pontevico, un’esperienza che mette al servizio degli altri giovani prossimi al sacerdozio

Grest. Una parola di poche lettere che dice, anche a chi non vive l’oratorio, molto. Una parola che non ha bisogno di altre presentazioni. A meno che, come è stato per don Marco Forti, non sia strettamente legata alla sua scelta di farsi prete. “È stato durante il Grest del 2005 – ricorda il giovane originario di Mazzano – che ho avuto la prima percezione che quella del sacerdozio potesse essere la mia strada”. Per Marco, che pure poteva già vantare come tanti altri coetanei esperienze di animazione in parrocchia, è stata quella la prima volta che ha sperimentato la gioia vera. “Non ci fu nulla di particolare – afferma –, ma solo in quell’occasione sperimentai un nuovo modo di vivere le relazioni, gli ambienti”. Per questo a più di dieci anni di distanza e nell’imminenza dell’ordinazione sacerdotale, don Marco Forti non manca di manifestare la sua gratitudine al parroco (don Piero Pochetti, a Mazzano dal 2003, ndr) che chiese a lui e ad altri giovani, di pensare al Grest. “È stato in quel frangente – ricorda –, senza nessuna richiesta particolare che compresi che il Signore mi era vicino senza che l’avessi cercato. C’era qualcosa, qualcuno che mi chiedeva la disponibilità a giocare la mia vita in quell’abbraccio di fede”. Un abbraccio da cui don Marco non ha più voluto staccarsi, che lo ha accompagnato in tutto il suo cammino verso il sacerdozio. “Un abbraccio – aggiunge – che di volta in volta ha preso il volto, le fattezze delle persone che ho avuto modo di incontrare”.

Tutto questo oggi, a pochi giorni da quel sì che pronuncerà davanti al vescovo Monari, gli fa dire, non senza una buona dose di simpatia, che il Grest sia una straordinaria invenzione di Dio per dare un modo concreto al suo popolo (che è fatto di sacerdoti, religiosi, religiose, animatori, bambini, ragazzi e relative famiglie) di incontrarlo”.

Quel “segno” avuto al Grest, quella chiamata è stato per don Marco la chiave per aprirsi e lasciarsi interrogare sulle ragioni di quella felicità mai provata prima. “Una felicità – continua ancora nel suo racconto – non effimera, non appagante nell’immediato, ma condivisa con chi ha vissuto con me quell’esperienza e il cammino che da questa è stato provocato”.
Il Grest, per sua natura, è un’esperienza di molti. Pochi, però, sono quelli che da questa si sono fatti toccare al punto di dire di sì al sacerdozio. Un’occasione per pochi privilegiati? “No, direi, proprio di no. Faccio fatica a leggermi come un privilegiato, così come faccio fatica – afferma al riguardo don Marco Forti – a pormi la domanda: perché proprio a me. Quello che mi stimola, piuttosto, è l’interrogativo: perché non tutti?”. La questione posta dal futuro sacerdote è di quelle importanti e rimanda all’incapacità, forse all’impossibilità, di tante persone di leggere la loro vita in funzione di qualcosa che va oltre le scelte che si compiono. “Non si tratta – specifica – soltanto del tema della vocazione sacerdotale, ma di riuscire ogni tanto ad alzare lo sguardo dalla contingenza della vita, di vedere che al di sopra di ogni persona ci sono squarci che indicano che la vita che stanno vivendo è qualcosa in più dell’esistenza che stanno conducendo”.

Riuscire ad alzare lo sguardo, per don Marco, aiutare a dare senso a tante scelte, a quella del sacerdozio, ma anche a quella del matrimonio e tante altre ancora.
Don Marco ha saputo alzare lo sguardo anche grazie agli anni del Seminario... Se il Grest è stato il colpo di fulmine, quelli trascorsi in comunità, insieme a tanti altri giovani, sono stati quello che per una coppia rappresenta la stagione del fidanzamento, prima del matrimonio.
“In un certo senso – conferma – è stato proprio così. Quelli trascorsi in Seminario non solo sono stati gli anni del discerimento, della verifica della profondità e della fondatezza di quel primo richiamo, ma anche della scoperta della bellezza di giocarmi per costruire qualcosa di più profondo, in un percorso in cui la fatica e le difficoltà non sono mancate”. È grato agli anni del Seminario perché gli hanno dato modo di superare l’infatuazione iniziale per il sacerdozio e comprendere che c’era qualcosa di più profondo che l’ha spinto su questa strada. “È stato un percorso – continua ancora don Marco – che per certi versi ha del paradossale perché più diventava seria la presa di coscienza di cosa comportasse questa chiamata più andava aumentando il senso di inadeguatezza e la convinzione che quella intrapresa fosse comunque la strada giusta”.

Don Marco Forti, rispetto agli altri giovani che con lui saranno ordinati l’11 giugno, vanta un’esperienza in più che mette a disposizione dei prossimi “novelli”.Da due anni, concluso il cammino di formazione in Seminario, vive da diacono il servizio in parrocchia, prima a Odolo e poi a Pontevico. Un’esperienza che gli ha permesso di verificare se il progetto elaborato negli anni dello studio e dell’approfondimento corrisponda poi a quello che un giovane sacerdote trova nelle comunità in cui viene inviato dal Vescovo dopo l’ordinazione. “Forse – è la sua ammissione – serve mettere da parte il termine progetto, perché di quello che uno si immagina negli anni del Seminario non c’è traccia nella vita al servizio di una parrocchia”. La comunità a cui si è destinati, è il pensiero di don Marco Forti, non sa nulla del progetto che un giovane seminarista può avere immaginato, chiede tutt’altro al giovane sacerdote. L’errore più grande che il prete novello può compiere è quello di cercare di “piegare” la comunità al progetto, al modello elaborato in precedenza. “Si tratta di un atteggiamento che ha il fiato corto – ricorda a se stesso ma anche a uso e consumo degli altri giovani prossimi al sacerdozio –, che rischia di compromettere le relazioni con le persone perché non permette alla realtà in cui sei chiamato a vivere l’esperienza dell’incontro. Più che di progetto è meglio di parlare di disponibilità ad accogliere e a lasciarsi accogliere”. Un atteggiamento, quello suggerito e maturato sulla scorta di esperienze personali che consente, secondo il giovane originario di Mazzano, di affrontare anche un altro ostacolo che si pone davanti a ogni prete novello. A loro, a differenza di altri “professionisti” non è dato il tempo dell’apprendistato. Le comunità che li accolgono dopo le ordinazioni non possono aspettare, gli chiedono tanto e subito... “Sì, questo è un dato di fatto – afferma don Marco –. Per questo mi piacerebbe che le parrocchie a cui saremo destinati sappiano privilegiare la vita rispetto alle esigenze, che abbiano più voglia di stare con il sacerdote che avere subito da lui servizi e risposte a bisogni diversificati”.
M. VENTURELLI 10 giu 2016 00:00