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Brescia
di +LUCIANO MONARI 03 apr 2015 00:00

Monari: "La gioia del Vangelo è la risposta alle difficoltà della quotidianità"

La vita di oggi ci pone di fronte a difficoltà nuove, a tentazioni nuove, quindi a insoddisfazioni sempre più grandi. È possibile uscire da questa situazione? "Papa Francesco - ricorda Monari nella Messa crismale - non fa altro che invitare alla gioia. Dobbiamo annunciare la gioia del vangelo e per farlo dobbiamo naturalmente essere gioiosi noi per primi"

Grazie di cuore, fratelli carissimi, di essere qui a vivere ancora una volta insieme il giovedì santo, a celebrare la Messa crismale e rinnovare le promesse sacerdotali. Tutti gli anni, in questa occasione, ricordiamo con riconoscenza gli anniversari di ordinazione. Ma questo è anche l’anno del mio cinquantesimo di ordinazione e quindi mi sento particolarmente coinvolto nel ringraziamento a Dio insieme a tutti i preti bresciani ordinati nel 1965, l’anno della conclusione del Concilio. Vorrei che questo fosse un momento di intimità nel quale entriamo con tutti i nostri sentimenti, col desiderio di riconsegnare noi stessi al Signore Gesù “che ci ama, ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ha fatto di noi… sacerdoti per il nostro Dio e Padre.” (Ap 1,5-6) A Lui chiediamo il coraggio di continuare a camminare attraverso il deserto verso la terra promessa. La fatica c’è e si fa sentire: la mancanza di acqua e di cibo, il pericolo dei serpenti velenosi, l’ostilità degli Amaleciti accompagnano il pellegrinaggio del popolo di Dio; ma l’epopea dell’Esodo ci ha insegnato a mantenere la speranza. Abbiamo con noi l’eucaristia come viatico; abbiamo i salmi, compagni di viaggio, che ci permettono di cantare e così alleggerire la fatica del cammino; abbiamo le Scritture che ci sono date per la nostra perseveranza e la nostra consolazione.

Tutto questo non ci impedisce di sentire il disagio di un mondo che non gira bene; ed è proprio su questo disagio che vorrei dirvi una parola. Quand’ero bambino capitavano momenti in cui ero noioso e mi lamentavo. Vuoi questo? vuoi quest’altro? chiedeva mia madre; e davanti ai miei dinieghi continuava sorridendo: “Non sai nemmeno tu quello che vuoi!” Proprio così, come i fanciulli del vangelo che rifiutano ogni gioco venga loro proposto: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.” È il ritratto della nostra condizione e non solo di noi preti, ma della società intera. Desideriamo una cosa e nello stesso tempo il suo contrario.

Desideriamo che si faccia attenzione alle singole persone, ma nello stesso tempo pretendiamo che non ci siano differenze nel trattamento. Ci sentiamo soli, isolati, ma non vogliamo vivere insieme perché questo ci toglierebbe un po’ della nostra libertà. Vogliamo capire meglio come operare in questo benedetto mondo, ma facciamo fatica a partecipare alle settimane teologiche. Desideriamo che i laici si prendano delle responsabilità, ma vogliamo tenere tutto sotto controllo… il bello è che ciascuna di queste esigenze, in se stessa, è sostenibile e ha motivazioni reali; ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca e quando si vogliono entrambe le cose insieme, il risultato non può che essere il mugugno dell’insoddisfatto.
Lo vogliamo o no, apparteniamo al mondo d’oggi; e il mondo d’oggi ci pone di fronte a sfide nuove, che non conoscevamo e alle quali non siamo allenati. Quando la fede era patrimonio comune e in paese c’era solo un piccolo bizzarro gruppo di atei, l’adesione alla fede era scontata e il dubbio era un’anomalia ristretta a pochi. Ma quando la fede appare un’opzione minoritaria, il dubbio diventa comune e bizzarra sembra piuttosto l’adesione di fede. Ora, checché ne dicano alcuni pubblicisti, propagandisti del dubbio a oltranza, il dubbio è una condizione scomoda, che crea inquietudine e incertezza, soprattutto quando riguarda le scelte decisive della vita. Se il dubbio riguarda il valore della costante nella formula della gravità, posso continuare a dormire sonni tranquilli. Ma se, incerto, mi chiedo se la mia vita abbia senso, se temo di aver sbagliato tutto, se fa problema la fede in Dio e soprattutto nella Chiesa, se non vedo più motivi sufficienti per aver rinunciato al rapporto affettivo con una donna e a una mia famiglia… un dubbio di questo tipo è rovinoso, mi fa sentire a disagio, mi fa diventare insofferente di tutto.

Anche la situazione sociale del prete non è oggi invidiabile. Fino a pochissimi anni fa, nelle inchieste sulla fiducia che le persone nutrono nei confronti delle istituzioni, la chiesa cattolica era nelle primissime posizioni. In pochi anni abbiamo perduto molti consensi. Siamo diventati all’improvviso poco fidabili? No; ma è cambiato il vento. Il dramma della pedofilia, le posizioni della chiesa nei confronti di bioetica, sessualità, famiglia, immigrati, insieme a una campagna mediatica insistente hanno fatto pensare alla gente che “il re è nudo”; che il vestito prezioso di cui sembravamo coperti era aria pura. E così oggi la fiducia è diminuita vistosamente. Certo, è diminuita la fiducia in tutte le istituzioni, ma questo non ci consola affatto; anche perché il rapporto tra una persona e l’istituzione di cui fa parte è molto più stretto per noi che non per qualsiasi altra categoria di persone. Nella percezione comune noi siamo la Chiesa; la sfiducia nella Chiesa ricade su di ciascuno noi più direttamente di quanto la sfiducia nella scuola ricada sul singolo insegnante.

Ancora: l’infedeltà coniugale è sempre stata presente nella società. Ma oggi, credo per la prima volta, è socialmente giustificata e considerata inevitabile se non doverosa; pochi, sembra, rimangono fedeli a un unico amore per tutta la vita; separazioni e divorzi esprimono questa volatilità dei sentimenti. Non esiste più quella protezione che veniva dal riserbo personale e dalla censura sociale. Se una persona s’innamora, non sta a considerare se l’altro sia libero o no; si attacca, anche a un prete, forse soprattutto a un prete. Possiamo pensare che questa trasformazione nella mentalità comune non abbia ripercussioni anche sul nostro modo di vivere gli impegni sacerdotali? che non incida sulla serenità dello spirito? Lo può pensare solo chi si illude di essere assolutamente immune dai virus mondani. Sono nell’aria, li respiriamo – che lo si voglia o no; se gli anticorpi non sono abbastanza forti, l’infezione è inevitabile. Avremmo bisogno di molta più preghiera, di una regola rigida che ci protegga dagli ambienti più inquinati, di una vita comune che soddisfi le esigenze fondamentali di amicizia e di affetto.

Insomma: la vita di oggi ci pone di fronte a difficoltà nuove, a tentazioni nuove, quindi a insoddisfazioni sempre più grandi. È possibile uscire da questa situazione? Papa Francesco non fa altro che invitare alla gioia. Dobbiamo annunciare la gioia del vangelo e per farlo dobbiamo naturalmente essere gioiosi noi per primi. Ma non è una contraddizione dire che dobbiamo essere felici? La felicità zampilla bella chiara da un cuore riconciliato con se stesso, con gli altri, con la vita; ma se questa riconciliazione non c’è, la gioia non nasce, nemmeno se la si infila col forcone.
Prima conseguenza pratica: se sono insoddisfatto, devo riflettere anzitutto su me stesso, devo chiedermi se sto desiderando la luna; ma anche se la mia esistenza è davvero quella che deve essere o se invece nella mia vita ci sono delle contraddizioni, dei compromessi più o meno gravi, più o meno palesi. Se ci sono dei compromessi, devo essere sincero con me stesso: al novanta per cento la mia insoddisfazione dipende da me, dal mio stile di vita. Devo correggere anzitutto questo: le critiche al sistema sono solo coperture con le quali cerco di razionalizzare il disagio, di proiettarlo fuori di me.

Ma questo non è tutto. Tolte le inconsistenze, il disagio può rimanere perché le difficoltà del prete e del suo ministero non sono solo personali, ma anche oggettive. La fatica di annunciare il vangelo è reale. Motivato è quindi anche il disagio che proviamo. Vorremmo essere capaci di convincere la gente a conoscere e amare Gesù Cristo, vorremmo raccogliere tutti in una comunità fraterna, vorremmo riuscire ad accompagnare le persone in un cammino di santità autentico, ma non sappiamo come fare; ci sembra di non possedere gli strumenti necessari. Torna sempre di nuovo l’interrogativo: su che cosa dobbiamo concentrare gli sforzi?

A questo interrogativo ho cercato di rispondere nella conversazione che abbiamo avuto lo scorso anno, nella tre giorni del clero. Lì ho detto una cosa semplicissima, addirittura lapalissiana: predichiamo con fedeltà la parola di Dio, celebriamo come Dio comanda la Messa e i sacramenti, amiamo le persone con un cuore disinteressato e generoso: sono tutte cose che sappiamo fare e che possiamo fare bene. Se facciamo questo, il senso fondamentale del nostro servizio è assicurato perché attraverso queste attività è il Signore stesso che parla, agisce, ama. Non è garantito che il mondo si convertirà, ma il Signore non ha mai promesso questo. Piuttosto egli ci chiede di rimanere in Lui, di annunciare la sua parola opportune et importune, di amare le persone che ci sono affidate come il pastore conosce e ama le pecore del suo gregge. Il resto non dipende da noi. Su parola ed eucaristia ho già dato le indicazioni che mi sembravano necessarie. Anche sulla guida della comunità ho già detto l’essenziale, ma capisco di dover essere più esauriente e, se Dio vorrà, tornerò su questo aspetto della pastorale. In ogni modo, nessuno può dire: non abbiamo indicazioni chiare; e nemmeno: ci vengono chieste cose impossibili. Riprendete la terza parte della Novo Millennio Ineunte, nei nn. 29-41. È un capitolo chiarissimo e semplice nello stesso tempo: fa’ questo e vivrai.
Ma non basta ancora: cosa fare per la distanza che sembra crescere tra il nostro modo di pensare e la mentalità contemporanea? La Chiesa non è e non deve diventare mondana. Ma la Chiesa è nel mondo, deve amare il mondo, parlare al mondo, desiderare che il mondo si salvi; la percezione di essere estranei alla cultura dominante non è solo motivo di sofferenza, ma anche di un senso di colpa. Purtroppo da questa strettoia non usciremo in poco tempo. Avremmo bisogno di una trasformazione come quella che san Tommaso ha operato nel xiii secolo quando ha assunto la filosofia di Aristotele come strumento per dire la fede in modo nuovo. Ma il mondo che Tommaso aveva davanti era un mondo unitario e un genio come lui era in grado di abbracciarlo. Oggi, la cultura è molteplice, varia, contraddittoria, articolata, specializzata.

Nessun uomo, per quanto intelligente, riesce ad afferrarne esaustivamente anche solo un settore. Cerchiamo di affrontare seriamente un problema e ce ne capitano addosso dieci. Abbiamo lottato contro il divorzio e ci è capitato tra capo e collo l’aborto. Ci siamo mobilitati contro l’aborto perché siamo convinti (e abbiamo ragione) che la difesa della vita umana sia un dovere irrinunciabile e ci siamo trovati nel bel mezzo della discussione pro o contro la fecondazione eterologa; abbiamo combattuto il referendum sulla legge 40 e vediamo che quella legge, pezzo per pezzo, viene smontata; oggi, all’improvviso, sembra che lo snodo decisivo di tutti i problemi sia quello dei cinque ‘genders’ spuntati chissà da dove… Insomma, ci sembra di essere assaliti da tutte le parti e di non riuscire a ribattere con successo sui diversi fronti che inopinatamente si aprono. Accade allora che alcuni si barricano ermeticamente in difesa di un mondo che non c’è più e finiscono per vivere in una nicchia forse confortevole, ma sterile; e altri sono invece tentati di prendere tutti i treni che passano senza sapere quale sia la loro destinazione. Abbiamo bisogno di persone aperte, ma con senso critico; di persone attaccate alla tradizione [senza tradizione siamo infantili e ciechi], ma anche qui con senso critico.

La trasformazione che sentiamo necessaria potrà uscire solo dalla sinergia di molti, esperti dei diversi ambiti dell’esperienza umana. Sarà un cammino lungo e non sarà un cammino guidato da noi chierici – come invece è avvenuto nel medioevo. Noi dovremo esserci e dovremo portare un contributo indispensabile: quello della Parola illuminante di Dio; quello del perdono e della misericordia di Dio, la sola capace di rimettere in corsa le persone e le società sbandate; quello della testimonianza di una esistenza consacrata che apre la società ai valori trascendenti e in questo modo la mantiene sana nel suo modo di maneggiare i valori immanenti. Ma dovranno esserci soprattutto i laici, uomini e donne, e dovranno portare il contributo della loro esperienza secolare.

In conclusione: c’è anche un disagio che non riusciremo a togliere immediatamente ed è quello di vivere in un contesto sociale che non ci ha in nota; questo disagio dobbiamo accettarlo pazientemente e farlo diventare stimolo a una maggiore creatività e autenticità cristiana.

In realtà una ricetta semplice e infallibile di gioia c’è e, senza invidia, ve la comunico. Il capitolo 50 del libro del Siracide descrive la splendida apparizione del sommo sacerdote Simone, figlio di Onia: “Com’era glorioso quando si affacciava dal Tempio, quando usciva dal santuario dietro il velo! Come astro mattutino in mezzo alle nubi… Quando indossava i paramenti gloriosi, egli era rivestito di perfetto splendore; quando saliva il santo altare dei sacrifici, riempiva di gioia l’intero santuario…” (Sir 50,5-6.11) Il testo va avanti per più di venti versetti a descrivere e magnificare il sacerdote e la liturgia. Nella prima lettera ai Corinzi, cap. 4, san Paolo scrive: “Ritengo… che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini… Fino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati sopportiamo; calunniati confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.” (1Cor 4,9.11-13)

Ecco, se accettiamo il passaggio da Simone figlio di Onia a Paolo apostolo di Cristo, se accettiamo cordialmente di essere la spazzatura del mondo, la gioia ci è assicurata; non c’è barba di mondo o di potenze del mondo che possa togliercela. Siamo ancora nel deserto, in cammino verso la terra promessa. Vale anche per noi il patto che ha sostenuto i nostri padri: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere nello stesso modo successi e pericoli, intonando le sacre lodi dei padri". (Sap 18,9)

Le immagini di Pierre Putelli (New Eden Group)

Posted by La Voce del Popolo on Giovedì 2 aprile 2015
+LUCIANO MONARI 03 apr 2015 00:00