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Brescia
di L. ZANARDINI 13 ott 2015 00:00

Oggi come ieri gli italiani emigrano: il ruolo delle comunità cattoliche all'estero

“Gli emigranti italiani e le Chiese in Europa, a 50 anni dal Concilio Vaticano II”. Questo il tema del Convegno delle Missioni Cattoliche Italiane in Europa organizzato dalla Fondazione Migrantes che si svolge a Brescia presso il Centro pastorale Paolo VI da questo pomeriggio al 16 ottobre. Ne parliamo con mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes

Il convegno “Gli emigranti italiani e le Chiese in Europa, a 50 anni dal Concilio Vaticano II” da una parte vuole rileggere 50 anni di pastorale delle migrazioni italiane a partire dal Concilio Vaticano II, sottolineando le diverse esperienze in Europa, dall'altra la particolare pastorale nelle grandi città, in un tempo che vede una nuova stagione dell’emigrazione giovanile italiana. Per la prima volta negli ultimi 20 anni, nel 2014 i cittadini italiani residenti all’estero sono aumentati più degli immigrati arrivati in Italia.

In questi 50 anni qual è stato il ruolo delle comunità cattoliche in Europa nell’accoglienza e nell’integrazione?

Sono diverse le parole che caratterizzano questi 50 anni di storia di pastorale dell’emigrazione a favore delle comunità italiane all’estero. La prima parola è accompagnamento. Una delle espressioni più belle del Concilio Vaticano II fu proprio l’espressione che la Chiesa cammina con le persone. La Chiesa ha camminato con i migranti italiani attraverso, oggi, 400 sacerdoti e 670 operatori pastorali che provengono una parte dal mondo dei religiosi (pensiamo agli scalabriniani) e una parte (100) anche dalle nostre diocesi; stanno continuando una storia iniziata da un vescovo originario di Brescia, mons. Geremia Bonomelli, che con l’opera Bonomelli nel 1900 intraprese questa esperienza molto bella di sacerdoti diocesani che accompagnavano gli emigranti (soprattutto lombardi) nei diversi Paesi del mondo .

Quali sono state le difficoltà maggiori?

La migrazione è sempre una sofferenza perché significa un distacco rispetto alla propria comunità, rispetto alla propria famiglia e al mondo nel quale si cresce, un distacco dal contesto linguistico per inserirsi in un’esperienza sociale, culturale, lavorativa ma anche religiosa diversa. Una prima difficoltà delle nostre comunità migranti fu proprio quella di conservare l’esperienza di fede: molti andavano in Paesi, come la Germania, la Svizzera o l'Inghilterra, dove l’esperienza cattolica era minoritaria. Nelle comunità cattoliche i nostri migranti hanno potuto continuare un cammino di fede. Dentro le comunità si coniugava e si coniuga l’evangelizzazione con la promozione umana: nacquero delle Società di Mutuo Soccorso, Banche per mandare le rimesse in Italia, circoli culturali… La comunità è un luogo importante per tutelare i migranti alla luce della dottrina sociale della Chiesa. La Chiesa ha portato avanti anche una battaglia importante sul tema del ricongiungimento familiare per la tutela dell’unità familiare. Infine, sono stati favoriti tutti i processi di integrazione che, come comprendiamo anche dalla nostra storia, non sono sempre facili.

Qual è il futuro delle missioni cattoliche?

La crisi economica sta creando una nuova stagione di emigrazione. Ci sono 101mila persone che partono a fronte di 33mila lavoratori immigrati che sono arrivati. Partono i giovani ma anche i 50enni che perdono il lavoro. E’ un cammino nuovo, ma sono nate esperienze interessanti. Le 67 missioni cattoliche in Germania hanno fatto un progetto, sostenuto anche da noi, per accogliere coloro che arrivano e non hanno riferimenti. Cerchiamo di essere attenti alle nuove destinazioni. Abbiamo aperto una missione cattolica a Barcellona perché in questi anni sono arrivati più di 30mila giovani, così come a Mosca, a Helsinki, in Cina o negli Emirati Arabi. Cerchiamo di esserci a maggior ragione laddove il contesto di vita religiosa è difficile per la storia politica e sociale del Paese, penso ad esempio alla Cina.
L. ZANARDINI 13 ott 2015 00:00