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Firenze
di M. VENTURELLI 10 nov 2015 00:00

Papa Francesco: Il nuovo umanesimo cristiano e una Chiesa con il volto di mamma

"Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: ‘Voi, chi dite che io sia?’”. E poi ancora: "La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri”. Leggi alcuni passaggi del discorso discorso pronunciato dal Papa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore davanti ai 2.200 delegati che partecipano al quinto Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana

Dal nostro inviato. “Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo”.

Queste le prime parole che papa Francesco ha rivolto agi oltre 2000 delegati delle diocesi italiane, riuniti nella cattedrale di Firenze per la celebrazione del 5° convegno ecclesiale nazionale e chiamati ad individuare la strada e le “buona prassi pastorali” per quel nuovo umanesimo che ha il suo unico riferimento in Gesù Cristo. Con il suo atteso intervento il Papa ha letteralmente “preso per mano” la chiesa italiana radunata sotto la cupola del Brunelleschi, indicandole la strada per rispondere efficacemente alla domanda “Voi, chi dite che io sia?”.La Chiesa deve operare per mostrare il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte.

“Il volto di Gesù – ha ricordato - è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. E quel volto ci guarda. Dio diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo mai vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato”. Con il rischio, ha detto ancora papa Francesco, di capire nulla dell’umanesimo cristiano e di soffermarsi su parole saranno belle, colte, raffinate, ma che non sono parole di fede. Per questo il Papa ha voluto indicare ai partecipanti al convegno ecclesiale alcuni tratti dell’umanesimo cristiano. Non si tratta di astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che rende i cristiani capaci di vivere e di prendere decisioni. Il primo sentimento che papa Francesco ha indicato a Firenze è stata l’umiltà. “Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra – sono le parole risuonate nella cattedrale fiorentina -. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre”.

Il sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano indicato da papa Francesco è stato quello del disinteresse.”Più che il disinteresse – ha continuato - dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio”. Di qui l’invito forte, vibrante a evitare di rinchiudersi nelle strutture che danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”. Qualsiasi vita, ha ricordato, si decide sulla capacità di donarsi. Terzo e ultimo sentimento ricordato dal Papa è quello della beatitudine. “Nelle beatitudini – ha ricordato - il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina”. Per i grandi santi la beatitudine ha sempre avuto a che fare con umiliazione e povertà. “Ma anche nella parte più umile della nostra gente – è stato un altro passaggio del discorso di papa Francesco - c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile”.

Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. “I sentimenti di Gesù – ha continuato il Papa ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente”. Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che, secondo Papa Francesco, sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade – ha ricordato anche alle delegazioni delle diocesi italiane e ai loro vescovi -, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”.
Non ha mancato, il Papa, di elencare due delle tentazioni che la Chiesa italiana deve affrontare e tenere a bada. La prima di esse è quella pelagiana. “Una tentazione – ha spiegato - che spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività”. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Di qui l’invito alla Chiesa italiana perché nel cammino verso un nuovo umanesimo “si lasci portare dal soffio potente dello Spirito e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste”. Quella italiana sia, allora, una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. “E – ha proseguito ancora il Papa - incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno”.

La seconda tentazione indicata a Firenze è quella dello gnosticismo che porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, perdendo, però, la tenerezza della carne del fratello. “Il fascino dello gnosticismo – ha ricordato il Papa - è quello di una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti”. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo. La Chiesa italiana, ha continuato ancora Francesco, ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. “Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente, un povero prete di campagna che conosceva i suoi parrocchiani uno per uno, i loro dolori e le loro gioie, che soffriva e rideva con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. “Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio - è stato il rischio indicato dal Papa - perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte”.

Cosa deve fare la Chiesa italiana, cosa gli chiede il Papa? “Spetta a voi decidere – la sua risposta -: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare Gesù, rappresentato nella cupola del Brunelleschi come Giudice universale. Alla Chiesa, alle comunità locali decire se entrare nel novero dei benedetti, destinati a ricevere in eredità il Regno preparato da Dio i farsi scacciare, condannati al fuoco eterno.” Che il Signore – sono ancora parole di papa Francesco - ci dia la grazia di capire questo suo messaggio!”.

Nell’ultima parte del suo intervento il Papa si è rivolto ai vescovi presenti in Cattedrale. “Vi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi”. A tutta la Chiesa italiana ha raccomandato quanto già indicato nella Evangelii gaudium: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel Paese, cercando il bene comune. “Che Dio protegga la Chiesa italiana – è stata l’invocazione di papa Francesco - da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza”. La Chiesa, questa l’altra preghiera, sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. “Non dobbiamo avere paura del dialogo – le sue parole -: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia. Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze”.

Papa Francesco ha chiesto alla Chiesa italiana riunita a Firenze di essere capace di una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini.

L’ultimo appello papa Francesco l’ha rivolto ai giovani. “Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire. Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento”. Quello attuale, ha ricordato ancora, è un tempo che richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli. Ai giovani l’invito a “uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso. Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”.

E prima di lasciare la Cattedrale di Firenze il Papa ha espresso il suo gradimento per “una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”. Un sogno? Forse, ma che in ogni diocesi, in ogni Chiesa locale può essere realizzato, in modo sinodale, con l’avvio di un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni.
M. VENTURELLI 10 nov 2015 00:00