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Brescia
30 gen 2015 00:00

Vescovo Luciano Monari: "Nel mondo operando in esso a immagine di Dio"

La lectio magistralis del vescovo Monari all'Università di Ingegneria sull'etica ambientale. Intervento di venerdì 30 gennaio

Ho accettato volentieri l’invito che mi è stato fatto di parlare al termine di questo corso di etica ambientale soprattutto per esprimere l’interesse mio e della chiesa bresciana per i problemi che riguardano l’ambiente; sono problemi che ci coinvolgono perché toccano da vicino l’esistenza dell’uomo di oggi e di domani. Parlo però un certo timore per il fatto che l’etica ambientale si colloca all’incrocio di diverse discipline [tutte le scienze che studiano l’ambiente nonché quelle che studiano l’uomo: dalla chimica alla medicina, dalla politica all’economia, dalla filosofia alla religione]; si suppongono quindi competenze varie e complesse che evidentemente non possiedo. Cercherò di evitare il rischio di invadere campi altrui, anche se non sarà possibile farlo del tutto. Spero perdonerete quanto di approssimativo poteste riconoscere nelle mie parole.

Mi sono lasciato anzitutto provocare da un testo di Carl Amery (cioè Christian Anton Meyer). Nel suo libro intitolato “La fine della Provvidenza. Le conseguenze spietate del cristianesimo” egli intende evidenziare le colpe culturali della fede cristiana. La fede cristiana, dice, afferma che l’uomo sarebbe chiamato a esercitare, per incarico di Dio, una “signoria totale” sul mondo. Siccome è creato “a immagine e somiglianza di Dio” l’uomo si sente perciò, per principio, separato da tutte le altre creature e collocato al di sopra di esse come signore. Secondo Amery dal comando biblico di dominare la terra contenuto in Gn 1,27s si sarebbe passati all’attuale prassi di devastazione e di sfruttamento attraverso tre stadi storicamente significativi: l’etica monastica (con la coltivazione estesa del suolo), il Calvinismo (con la giustificazione teologica del successo economico), e l’etica neocattolica di prestazione (con l’idea di merito annesso alle azioni virtuose).” Scienziati, tecnici, economisti e infine ideologi politici si sarebbero riferiti a queste convinzioni per legittimare teologicamente un atteggiamento trionfalistico nei confronti della natura, atteggiamento dal quale dobbiamo velocemente prendere le distanze per riconoscere che il nostro posto è dentro al mondo, non sopra il mondo. “Finora – scrive – noi siamo seduti nella caverna di Platone, rallegrandoci al fuoco che si è acceso da solo. Ora dobbiamo uscire alla luce del giorno fatto. Dobbiamo imparare a vedere il mondo e il nostro posto in esso, a faccia a faccia. Il mondo, che non diventerà la nostra patria se non comprenderemo che esso è l’unica patria che noi da sempre abbiamo avuto, abbiamo e avremo.” (Das Ende der Vorsehung, 235.250; cit. in Auer, 203. 261-2) Amery non è il solo a imputare al racconto biblico il degrado ambientale prodotto soprattutto nel mondo occidentale e allora vorrei partire proprio dalla Bibbia per impostare la mia riflessione. Il testo in questione, come sapete, fa parte del poema della creazione che celebra l’origine da Dio di tutto ciò che esiste; non attraverso una emanazione che farebbe del mondo qualcosa di divino, ma attraverso un atto creativo che costituisce il mondo come ‘altro’ da Dio – quindi profano – ma nello stesso tempo legato indissolubilmente a Dio come creatura al creatore. L’opera della creazione è articolata in sei giorni ai quali succede, come compimento e scopo di tutto, il settimo giorno, il sabato, giorno di riposo benedetto e consacrato da Dio. All’interno di questo poema, nel sesto giorno, dopo aver narrato la creazione di bestiame, rettili e bestie selvatiche, il libro della Genesi continua così:
Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.
Dio li benedisse e Dio disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela,
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. (Gn 1,26-31).
A venire incriminato è anzitutto il v. 26 in cui Dio dice dell’uomo: “domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra.” Immaginare la propria presenza nel mondo come una forma di dominio preparerebbe, anzi promuoverebbe tutte quelle scelte aggressive nei confronti dell’ambiente delle quali oggi giustamente ci lagniamo e che sentiamo il dovere morale di contrastare.

Ma è proprio vero che il libro della Genesi costituisce l’uomo padrone assoluto, tirannico, capriccioso sulla natura? Dio ha creato l’uomo, dice il nostro testo “a immagine di Dio…” in modo che l’uomo sia, in qualche modo, la figura di Dio di fronte al mondo. L’espressione ha dato da pensare molto agli interpreti. Ci si è chiesti in che cosa consista formalmente questa ‘immagine di Dio’ e le risposte sono state varie e contraddittorie. Ne enumero solo alcune: l’uomo sarebbe immagine di Dio, dicono alcuni interpreti, a motivo dell’anima immortale che lo inabita; l’anima dell’uomo è aperta in qualche modo all’infinito, a tutta la conoscenza, alla verità, al bene: che cosa più di questo fa assomigliare l’uomo a Dio, che è verità senza ombra di menzogna, bene senza mescolanza di male? Ma questa spiritualizzazione dell’uomo non soddisfa tutti. Si fa notare che l’uomo è sì anima, ma sempre e solo un’anima incarnata, che esiste e si esprime solo attraverso il corpo; parlare dell’anima come ente a sé, significa parlare di un’anima che non è quella umana, parlare quindi di un’astrazione. La somiglianza di Dio va cercata invece nel corpo: il corpo dell’uomo permette la posizione eretta e l’uomo, notava già Ovidio, diversamente dagli animali, può fissare lo sguardo in alto, verso il cielo. È questo corpo proiettato verso l’alto, verso Dio stesso, che costituisce la somiglianza con Dio, una somiglianza tipicamente umana. Da qui a pensare che la somiglianza sia la possibilità di entrare in rapporto personale con Dio il passo è breve. L’uomo può ascoltare la parola di Dio, può rispondere a Dio con la sua parola, può entrare in relazione di alleanza con Dio come soggetto libero e responsabile… tutto questo fa sì che l’uomo non sia creatura chiusa entro il suo mondo di esperienza, ma creatura che può trascendere il suo mondo. L’uomo è più grande di se stesso, notava acutamente Pascal. In realtà, la trascendenza è la vera cifra dell’esistenza umana. È questo che il testo vuole dire?

In tutte queste risposte (e in cento altre ancora) c’è probabilmente qualcosa di vero. Ma forse bisogna fare ancora un passo avanti. Siamo facilmente portati a intendere “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” come se questa frase indicasse una qualità dell’uomo che lo rende ‘simile’ a Dio; ma probabilmente il testo si muove in un’ottica più dinamica: essere simile a Dio non è prima di tutto una qualità ma un compito, una vocazione, una responsabilità che Dio affida all’uomo. Non si tratta di individuare dentro di noi qualcosa di grande e bello che appare come un riflesso della grandezza e della bellezza di Dio; si tratta invece di assumerci la responsabilità dell’esistenza umana in modo da configurarla come esistenza vissuta a ‘immagine e somiglianza di Dio’. La somiglianza con Dio non è qualcosa che l’uomo semplicemente possiede come un ‘dato’, ma qualcosa che l’uomo è chiamato a realizzare. Di fatto il testo unisce: primo, il conferimento all’uomo di un potere sulle altre creature della terra; secondo, la somiglianza con Dio dell’uomo maschio e femmina [non del maschio, dunque, e nemmeno della femmina, ma dell’uomo nella relazione che unisce maschio e femmina]; terzo, la benedizione perché l’uomo si moltiplichi, riempia la terra e la domini; quarto, l’attribuzione all’uomo dell’erba verde come cibo [la carne degli animali sarà concessa in cibo all’uomo solo dopo il diluvio]; quinto: l’approvazione divina di quest’opera di creazione: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.”

Possiamo dire probabilmente così: Dio ha creato l’uomo (maschio e femmina) nel mondo e ha consegnato a loro il mondo perché lo governino “a immagine di Dio”, quindi in nome di Dio, come fossero vicari di Dio. Non si tratta, quindi, di un potere qualsiasi, come se l’uomo potesse fare nel mondo e del mondo qualsiasi cosa gli nasca dentro come desiderio; si tratta, invece, di operare in modo tale che il mondo risponda sempre più pienamente al volere di Dio. Nell’azione dell’uomo deve riconoscersi ed esprimersi la volontà del creatore; quanto più le scelte dell’uomo corrispondono alla volontà del creatore, tanto più l’uomo configurerà la sua stessa esistenza come esistenza a “immagine di Dio.” Discepoli come siamo di una visione evoluzionista del mondo potremmo addirittura dire così: Dio ha creato il mondo e vi ha immesso le potenzialità per lo sviluppo di forme di vita sempre più complesse. Al vertice di questa crescita sta l’uomo, dotato di intelligenza e di libertà. A quest’uomo Dio consegna il potere di operare per una ulteriore trasformazione del mondo in modo che in esso la volontà di Dio appaia anche come volontà libera e mossa dall’amore. Non quindi un potere capriccioso ma un potere ‘qualificato’, che riceve le sue coordinate essenziali dalla volontà di Dio.

Con questo, però, il nodo non è sciolto del tutto. Rimane, infatti, l’affermazione chiara che l’uomo sarebbe il vertice della creazione, il suo centro, la sua piena realizzazione. Poiché l’uomo è consapevole di sé, egli può riconoscere l’opera di Dio come dono, può rispondere al dono con la riconoscenza e la lode, deve sentirsi responsabile davanti alla sapienza e all’amore di Dio. Ma è proprio questa posizione centrale dell’uomo che una buona fetta del pensiero contemporaneo contesta in radice. L’uomo, si dice, è una creatura come le altre; deve sentirsi immerso nella natura come tutte le altre forme viventi; deve scendere dal trono e camminare umilmente nel sentieri comuni della vita. Solo così la sua tendenza a prevaricare può essere tenuta sotto controllo. “Quale arroganza – scrive Hans Sachsse, chimico e filosofo della tecnica – pretendere che tutto ciò che esiste non abbia valore in sé e sia solo fatto per lui, solamente perché egli è l’ultimo prolungamento della natura! Il suo compito va invece inteso come un’immensa eredità della natura, eredità che egli deve proteggere e intelligentemente perfezionare mediante una comprensione illuminata di ciò che gli è offerto.” La seconda parte di questa citazione è perfetta: il complesso della natura è un’eredità che l’uomo deve proteggere e perfezionare; la prima, invece, ha bisogno di un chiarimento. Che le diverse creature abbiano un valore in se stesse e non siano solo strumenti per l’uomo è corretto e corrisponde anche al testo biblico dove, dopo ogni azione creativa, si dice: “Dio vide che era cosa buona.” Ma tutto questo non nega affatto che l’uomo sia un vertice, quel punto finale che proietta il mondo oltre se stesso, verso l’amore di Dio, la sua giustizia, la sua santità. E questo non toglie nulla alla ‘cura’ del creato, anzi la fonda ancora più solidamente.

Bisogna rifiutare, infatti, la prospettiva riduzionista che ragiona così: siccome gli esseri superiori derivano per evoluzione da quelli inferiori, la loro esistenza può essere ricondotta a quella degli esseri inferiori. L’unica differenza riscontrabile è quella di una maggiore complessità che richiede un’analisi quantitativa più complessa. Di fatto non è così. Scrive Bernard Lonergan: “le leggi della fisica valgono per gli elementi subatomici; le leggi della fisica e della chimica valgono per gli elementi e i composti chimici; le leggi della fisica, della chimica e della biologia valgono per le piante; le leggi della fisica, della chimica, della biologia e della psicologia sensoriale valgono per gli animali; le leggi della fisica, della chimica, della biologia, della psicologia sensoriale e della psicologia razionale valgono per gli uomini.” (B. Lonergan, Insight, 345-6) Il passaggio da un ente a un ente superiore richiede allo studioso l’introduzione di termini nuovi, di correlazioni nuove, di leggi fondamentali nuove mediante le quali esprimere atti di intelligenza nuovi. Entrare in questo modo di vedere non significa disprezzare gli ambiti inferiori della realtà, ma collegarli intelligentemente nella loro differenza e nella loro armonia. Ci troviamo, in ogni modo, di fronte a un bivio: quanto più riduciamo l’uomo agli esseri inferiori, tanto minore diventa inevitabilmente la sua responsabilità. Se l’uomo fosse semplicemente un animale come gli altri, non ci sarebbe posto per nessun progetto o programma ecologico; per nessuna protezione delle specie. Il riconoscimento della superiorità dell’uomo comporta proprio per questo un senso vivo di responsabilità nei confronti della creazione intera e delle specie viventi che la abitano.

Ma come si configura questa responsabilità? La risposta sta nell’etica ambientale che voi avete approfondito nel vostro corso e che anch’io vorrei potere conoscere meglio nelle sue singole determinazioni. Scrive giustamente Alfons Auer: “La razionalità etica è immanente nella realtà… La morale tende allo sviluppo ottimale dell’umano. Essa non aggiunge né sovrappone niente che non sia già presente come istanza nell’intimo dell’umano stesso. Si potrebbe anche dire che la morale è l’istanza della realtà nei confronti della persona umana.” (67) La morale non si presenta come una serie di regole capricciose che irrompono dall’esterno nel mondo dell’esperienza umana e finiscono per coartarla, delimitarla, correggerla. L’etica nasce necessariamente dal fatto che la realtà pone all’uomo delle esigenze precise. Siccome l’uomo è intelligente, egli si rende conto di queste esigenze; siccome è libero, deve farle sue liberamente, assumendosi la responsabilità delle sue scelte. Nella Bibbia ci sono alcuni libri che vengono chiamati ‘sapienziali’ (Pr, Sir, Sap, Qo). Sono libri nati non da una rivelazione (come i libri profetici), ma dalla distillazione di numerose esperienze e osservazioni. L’uomo che vive nel mondo sperimenta quotidianamente che le sue scelte hanno delle conseguenze; possono favorire il successo (se sono sagge) e possono produrre il fallimento (se sono stupide); possono contribuire al bene sociale (se sono buone) o possono distruggerlo (se sono cattive). Il patrimonio di questa esperienza viene espresso verbalmente in proverbi, detti, insegnamenti, parabole, precetti che vogliono aiutare l’uomo a orientarsi correttamente. Evidentemente l’etica, come tutte le forme di conoscenza, avrà col tempo sviluppi continui, diventerà più sofisticata, precisa, affinata, ma la sua origine rimane la medesima: imparare dalla realtà come si può vivere bene.

Si è detto, e giustamente, che “l’obbligazione morale – a differenza dell’obbligazione giuridica – ha in se stessa la sua sanzione.” Mentre la sanzione della norma giuridica dipende dal legislatore, la sanzione della norma morale è immanente. Tradotto: l’obbligazione morale è quella che comanda il bene e proibisce il male. Quando questa obbligazione è violata, la pena è contenuta inevitabilmente nella violazione stessa. Se faccio il male, non c’è rappezzo: io divento per ciò stesso meno uomo e produco inevitabilmente dei danni a me stesso e agli altri. In concreto: siamo di fronte a una crisi ecologica. Questa crisi è la dimostrazione che in passato non sono state fatte scelte che erano necessarie o sono state fatte scelte sbagliate. Non m’interessa ora direttamente un discorso di colpevolezza, ma di saggezza. Se le scelte che abbiamo fatto hanno portato alla crisi attuale è nostro dovere morale cambiare quelle scelte, raddrizzare i comportamenti, ma anche modificare quelle convinzioni mentali che hanno portato a operare in quel modo.
In particolare, si può affermare che alla base dello sfruttamento indiscriminato della terra stia la convinzione che l’uomo possa disporre a suo piacimento della terra stessa e dei suoi beni. Ebbene, questa convinzione è sbagliata, ha prodotto danni gravi, deve essere chiaramente rivista. L’uomo deve conoscere la natura; può trasformare la conoscenza in tecnologia e quindi in uso delle cose a suo vantaggio; ma non può fare tutto questo senza misura se non vuole distruggere la terra e inevitabilmente anche se stesso. Pensare che sia possibile un progresso senza limiti dell’attività umana si è dimostrato sbagliato. Dobbiamo fare i conti con ricchezze e con possibilità che hanno un limite. Di fronte alla produzione crescente di beni dobbiamo chiederci a che cosa servano e se promuovano il vero bene della persona. Emerge quindi, proprio dall’esperienza, un principio prezioso: non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente lecito. Non si tratta di imporre limiti alla ragione o alla libertà: si tratta di accogliere il giudizio corretto della ragione e, quando la ragione dice che un certo comportamento è ingiustificato e dannoso, imparare a rinunciare.

Ci troviamo qui di fronte a uno dei nodi più importanti del nostro problema. Le diverse visioni di etica ambientale hanno proprio qui la loro scelta iniziale; esiste un’etica ambientale antropocentrica e ne esiste una biocentrica. L’ottica biologica considera l’uomo come parte della natura; l’ottica antropologica considera invece il mondo come ambiente dell’uomo. È evidente che ci sono due versioni estreme di queste posizioni che vanno scartate. Non è possibile considerare l’uomo solo come pura ‘natura’; così come non è possibile affermare una libertà dell’uomo che non tenga conto della natura alla quale l’uomo in ogni modo è legato. Eliminate questa posizioni estreme si tratta di muoversi all’interno di uno spazio cercando di trovare i riferimenti migliori. Questo va fatto cercando di esaminare tutti gli effetti delle singole scelte e dei gruppi di scelte possibili.

Una prima determinazione elementare ma preziosa è quella che riconosce nella creazione un’opera buona. Nel racconto di Gn 1 per sei volte viene ripetuta, come un ritornello, l’affermazione: “Dio vide che era cosa buona.” La settima volta, al termine dell’opera creativa, si dice: “Dio vide che era cosa molto buona.” Non c’è dubbio: l’azione dell’uomo deve nascere dalla condivisione di questo giudizio e quindi deve essere indirizzata a custodire il mondo creato. Nel capitolo successivo il libro della Genesi dirà che l’uomo venne posto nel giardino di Eden “perché lo coltivasse e lo custodisse.” (Gn 2,15) Deve lavorarlo e quindi trasformarlo; deve custodirlo e quindi preservarlo. Nella complementarità di queste due azioni sta il suo compito, la sua missione.

Che cosa comporta tutto questo? Naturalmente la conoscenza del mondo; solo conoscendo che cos’è il mondo, come è fatto, come muta, l’uomo può essere in grado di custodirlo e lavorarlo. Viene quindi giustificata implicitamente tutta la grande impresa della scienza sia come conoscenza che permette di lodare il Creatore con maggiore consapevolezza ed entusiasmo; sia come possibilità offerta all’uomo perché col suo lavoro intervenga e possa operare nel mondo trasformazioni positive (la tecnologia). Dio ha creato un mondo intelligibile e in continua trasformazione, ha creato un uomo intelligente e capace di intervenire nella trasformazione del mondo con il suo lavoro. Che l’uomo cerchi di comprendere il mondo non è orgoglio o presunzione; e che cerchi di usare le cose del mondo per migliorare la sua vita non è arroganza. Il mito di Prometeo che pecca perché ruba il fuoco agli dei non appartiene al pensiero ebraico-cristiano. Se Dio avesse voluto fare del mondo un mistero sigillato lo avrebbe creato senza leggi costanti o avrebbe negato all’uomo la facoltà di conoscere il corso regolare delle cose. Ma non è così: Dio ha squadrato davanti all’uomo il libro grande dell’universo e gli ha detto: leggi, capisci, agisci!

Portate pazienza se faccio una piccola parentesi, che spero non inutile. Dobbiamo uscire dal mito che la conoscenza consista semplicemente in un atto passivo del vedere: come se il mondo stesse davanti a me, raggiungibile con i miei sensi; basta che i miei sensi (esterni e interni) siano sani perché io possa conoscere il mondo così com’è. Questa idea della conoscenza è un mito. La conoscenza non è un atto passivo che riproduce dentro quello che sta fuori; è invece un processo che si svolge attraverso un sistema di atti collegati tra loro. All’inizio sta la racconta dei dati, quindi l’esperienza [nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, dicevano i medievali]: vedere, ascoltare, toccare… ma anche ricordare, temere, sognare, arricchirci con le esperienze di altri… Non si tratta, però, nemmeno a questo livello, di un’operazione passiva. I dati che raccogliamo sono sempre una selezione tra tutti i dati possibili e la selezione dipende dall’interesse, dall’attenzione del soggetto che conosce. Chi gestisce una fabbrica, sarà inclinato – consapevolmente, ma forse anche inconsapevolmente – a minimizzare i dati che evidenziano l’inquinamento prodotto dalla sua azienda; chi invece è guidato da una sensibilità ecologica (e da interessi ecologici – perché ci sono anche questi) sarà portato a evidenziare i dati che indicano rischi e pericoli. Già a questo livello, dunque, il soggetto è attivo e deve essere attento a non alterare i dati col desiderio (il wishful thinking).

Ma la raccolta dei dati è solo l’inizio della conoscenza, perché i dati, in sé, sono muti; bisogna che i dati siano anche capiti, interpretati. L’intelligenza dell’uomo è fatta per collegare i diversi dati in modo illuminante (la classica lampadina che si accende); quando Einstein scrive e=mc2 unisce in modo sorprendente energia, massa e velocità della luce, interpreta in modo inedito i dati e le conoscenze anteriori, apre un modo nuovo di considerare la materia: tutto questo proviene da un atto d’intelligenza. E tuttavia, anche l’atto di intelligenza non risolve il problema della conoscenza; perché ci sono atti di intelligenza corretti (che ‘fanno centro’) e atti di intelligenza scorretti (che mancano il bersaglio). Come si distinguono gli uni dagli altri? Dalla capacità di spiegare meglio, più semplicemente tutti i dati rilevanti; valutare questo non è più compito dell’intelligenza creativa, ma del giudizio critico. Con l’intelligenza l’uomo esplora delle possibilità; con il giudizio afferma una possibilità come vera escludendo le altre come false; e solo quando si emette un giudizio il processo della conoscenza ha raggiunto il traguardo. Dunque, la conoscenza è un insieme strutturato che unisce l’esperienza, la comprensione dell’esperienza, il giudizio sulla comprensione che si è ipotizzata. Perché ho fatto questo discorso? Perché se un uomo desidera conoscere correttamente la realtà (e questo è il presupposto di ogni decisione saggia), se un uomo religioso desidera conoscere e fare realmente la volontà di Dio (senza confonderla con i suoi desideri), bisogna anzitutto che essi percorrano correttamente, integralmente, docilmente, questo processo. Dio ha creato il mondo così com’è, intelligibile; ha creato l’uomo intelligente e quindi capace di penetrare i segreti e illuminare le oscurità delle cose. La volontà del creatore non può essere altra che l’uomo usi le capacità che gli sono date per conoscere quello che gli è posto di fronte come realtà da conoscere.

Nella misura, s’intende, in cui questo ci risulta umanamente possibile. Nessuno di noi può presumere di raggiungere la conoscenza perfetta del mondo; la conoscenza umana ha dei limiti strutturali ed è abbastanza intelligente da rendersene conto essa stessa. Dovrà quindi affrontare intrepida l’oceano sconfinato della conoscenza, ma dovrà anche sapere misurare con umiltà le sue possibilità concrete. L’ideale di una conoscenza perfetta della realtà, se mai è stato accarezzato, ha subito negli ultimi anni delle smentite dolorose, ma forse utili. La conoscenza dell’uomo è aperta alla totalità della realtà, ma riesce concretamente a raggiungerne solo una parte. L’importante è percorrere con rigore il cammino della conoscenza senza cortocircuiti mentali, senza scorciatoie ideologiche, senza alterazioni interessate.

Ma non siamo ancora al traguardo. La conoscenza della realtà apre all’uomo la possibilità di agire intelligentemente. L’uomo non si accontenta di contemplare la verità; sente il bisogno di operare, di produrre qualcosa di nuovo. Ma in che modo? Con quali obiettivi? La regola dell’azione è il bene; scriveva san Paolo: “Fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene.” Parafrasi: fuggite il male anche quando è attraente e seducente; attaccatevi al bene anche quando è arduo o richiede un prezzo elevato. La conquista di questa percezione segna il raggiungimento della maturità etica. Un bambino distingue solo tra ciò che è gradevole e ciò che è sgradevole; a ciò che è gradevole si attacca, da ciò che è sgradevole rifugge. L’uomo adulto ha imparato che ci sono cose sgradevoli ma buone che bisogna fare proprie; e che ci sono cose gradevoli ma cattive e che queste vanno respinte anche se rendessero più ricchi o più importanti.
Ci chiediamo allora come funzioni il bene umano in concreto; al di là di una definizione astratta di bene, si tratta di conoscere che cosa è bene qui ora, quindi che cosa è giusto che io scelga e decida qui, ora. Una premessa necessaria consiste nel riconoscere che il bene umano è sempre insieme bene individuale (cioè un bene per gli individui umani) e bene sociale (cioè bene per la società nel suo complesso). È evidente che un bene sociale non è autenticamente bene se non produce beni concreti per le persone. Posso immaginare un modello perfetto di stato o di azienda o di organizzazione sociale… ma se lo stato, l’azienda, l’organizzazione sociale non producono effettivamente i beni individuali necessari o utili alle persone, non sono nemmeno beni sociali. Per beni utili intendo tutto ciò che favorisce, protegge, sviluppa l’esistenza dell’uomo: la vita fisica anzitutto, poi la salute, il cibo, la casa, il lavoro, la gratificazione affettiva, le relazioni umane autentiche, la libertà, la dignità della persona, la fraternità… Il valore etico di un’istituzione politica, economica, culturale non si misura dalla loro conformità maggiore o minore con un ideale astratto di stato o di azienda, ma con la quantità e qualità dei beni che riescono ad assicurare alle persone nella continuità del tempo.

Parallelamente, non è possibile parlare di beni individuali se non mettendoli in rapporto con i beni sociali perché solo nel contesto della società i beni individuali possono essere prodotti e garantiti nella quantità necessaria e con la necessaria continuità. Anche la fruizione più elementare di beni (come la colazione che faccio al mattino) è resa possibile dal buon funzionamento di una struttura economica e politica complessa: il lavoro agricolo, la trasformazione dei prodotti agricoli, il commercio, la distribuzione, il sistema dei controlli sanitari, dei prezzi, della qualità dei prodotti…. Se questa rete complessa di istituzioni non funziona o funziona male, i singoli ne soffrono. Debbo perciò volere contemporaneamente ciò che è bene per me, cioè tutto quello che mi costruisce come persona umana e fa della mia vita un’esistenza umana riuscita – e ciò che è bene per tutti, cioè tutto quello che contribuisce alla crescita umana di tutti. Se quello che serve a me distrugge il bene sociale, nello stesso tempo cessa di essere bene per me, proprio perché il mio bene non è pensabile al di fuori del bene di tutti. L’applicazione di queste affermazioni all’ambito della salvaguardia dell’ambiente è evidente e potreste voi portare una serie di esempi da quello che conoscete o studiate.

Bisogna anzi aggiungere una considerazione ulteriore. L’uomo vive nella storia e le sue azioni sono sempre azioni storicamente situate. Le decisioni che prendiamo e le azioni che compiamo hanno effetti immediati ma hanno anche effetti a lunga scadenza. Diventare persone etiche significa prendere coscienza di questa relazione e scegliere quindi le azioni che anche nel futuro garantiscono il bene di tutti. Questa attenzione ha un valore particolare proprio nell’ambito della riflessione ecologica. Ci sono infatti molti comportamenti che hanno effetti nocivi, ma solo a lunga scadenza. Diventa allora necessaria la riflessione per mettere a tema questi effetti e tenerne conto. Non mi è lecito cercare il bene immediato mettendo a rischio il bene delle generazioni future. Questa dimensione del bene è particolarmente importante per la salvaguardia dell’ambiente. La diverse forme di inquinamento e le loro conseguenze, infatti, tendono a mostrarsi con il passare del tempo e, a volte, solo dopo molto tempo. D’altra parte il senso comune fa fatica a prendere in considerazione il futuro non immediato; rinunciare a un comportamento immediatamente soddisfacente per impedire conseguenze che si mostreranno dopo anni (o decenni) richiede un abito mentale educato. Uno dei servizi che gli specialisti nella diverse branche del sapere sono chiamati a offrire alla società consiste esattamente nell’allertare le persone e coloro che debbono prendere decisioni (i politici) sulle conseguenze lontane di quanto stanno per fare. Si aggiunga anche che le conseguenze ambientali delle scelte politiche ed economiche non sono sempre così chiare: da una parte molte previsioni sono state smentite dai fatti e viceversa si sono verificati diversi inconvenienti che non erano stati per nulla presi in considerazione al momento dell’azione. Siamo perciò costretti a darci delle regole di azione inevitabilmente provvisorie, cautelative, riguardanti quelle azioni le cui conseguenze nel futuro non riusciamo ancora a delineare con precisione.

La difficoltà nasce dal fatto che non ci sono scelte solo buone o solo cattive; in questo caso la decisione sarebbe facile e univoca; potrebbe rimanere difficile l’esecuzione, ma la scelta apparirebbe chiara. Quando invece una scelta produce dei vantaggi in un campo dell’attività umana e svantaggi in un altro campo il processo di deliberazione si complica perché bisogna confrontare valori di specie diverse, che non ammettono un confronto quantitativo: a un bene economico può essere messo di fronte un bene affettivo, a un vantaggio per la salute un male per la carriera e così via. In questi casi è necessario esaminare e soppesare tutti i lati del problema, ma alla fine è la libertà che deve scegliere un corso di azione rinunciando a tutti gli altri corsi possibili. Il verbo ‘decidere’ viene dal latino caedere, cioè: tagliare via, eliminare tutte le altre opzioni che apparivano possibili per percorrere un’unica strada. Non c’è modo di fare diversamente.

D’altra parte questa ‘decisione’ non deve essere arbitraria e capricciosa. Deve essere preceduta da un esame di tutti i dati rilevanti. Ho una certa ricchezza da utilizzare: debbo distribuirla ai cittadini con un aumento di stipendio perché in questo modo aumentino i consumi? o debbo utilizzarla per le infrastrutture in modo da favorire la produzione e i trasporti? o debbo impiegarla per la prevenzione di possibili rischi futuri (cura del territorio, controllo dei corsi d’acqua, monitoraggio dei fenomeni ambientali)? È così scottante il problema che alcuni dubitano della democrazia ritenendola un sistema politico non adatto quando si debbono prendere decisioni di questo genere. È vero che se avvengono catastrofi naturali tutti concordemente si lamentano di quanto non è stato fatto per prevenirle. Ma è altrettanto vero che al momento del voto gli elettori tendono a preferire chi garantisce un livello maggiore di ricchezza (immediatamente trasformabile in aumento dei consumi) rispetto a chi garantisce un livello maggiore di sicurezza (i cui effetti sono riservati al futuro e che solo con difficoltà saranno percepiti emotivamente). Questo dice l’importanza decisiva dell’educazione ecologica che permette un confronto più corretto tra i valori in gioco nelle scelte; si tratta di aiutare a relativizzare il valore dei consumi immediati e di comprendere appieno, invece, il valore della prevenzione. Non c’è dubbio che la prevenzione sia utile, ma non c’è dubbio che la percezione di questa utilità richiede l’attenzione a cifre, a parametri, a confronti che richiedono studio, precisione, chiarezza.

Mi sembra infine che nella considerazione del problema ecologico siano in campo due tipi di valori che sono diversi ma che, nello stesso tempo, s’intrecciano tra loro. Il primo tipo di valori riguarda il bene della persona umana: la vita, la salute, l’integrità fisica. A questi valori sono annessi, come beni concreti, quelli della salubrità dell’aria (opponi l’inquinamento atmosferico), della disponibilità di acqua potabile (opponi i molteplici inquinamenti dei fiumi e del mare), della preservazione dell’ambiente naturale (opponi l’immissione massiccia di prodotti chimici), dell’uso limitato delle risorse non rinnovabili, dello smaltimento e del riciclaggio dei rifiuti, della libertà da inquinamento acustico. I pericoli che sono presenti nell’ambiente in cui viviamo sono evidenti a tutti.

C’è però anche un secondo ambito di valori cui siamo chiamati a dare attenzione ed è la salvaguardia della natura in quanto tale. La tutela delle specie animali, ad esempio, è parte della responsabilità che l’uomo ha di fronte alla natura. È vero che, come ricordava Leopardi, la natura stessa appare matrigna: che non ha un cuore, che crea e insieme distrugge sempre nuove forme di vita; non è l’uomo la causa della scomparsa della maggior parte delle specie viventi. Ma l’ingresso dell’uomo sulla scena del mondo ha anche questo compito: di prendersi cura delle diverse forme di vita e di proteggerle, per quanto umanamente possibile. La difesa dei diversi ecosistemi, ad esempio, non produce immediatamente beni funzionali (almeno per quanto mi sembra di capire), ma produce una maggiore ricchezza ‘simbolica’ dell’ambiente in cui viviamo. E anche questa è una ricchezza necessaria; l’uomo non vive solo di pane ma anche di varietà, di bellezza, di meraviglia, di ammirazione. Non so se si possa parlare correttamente di un ‘diritto’ della natura o degli animali o delle specie animali: è questione di cui discutono accanitamente gli esperti. In ogni modo sono convinto che si possa e si debba parlare di un dovere dell’uomo nei riguardi delle diverse forme di vita esistenti nel nostro pianeta. Siamo più uomini, più ‘umani’, quando impariamo a rispettare, nella misura del possibile, le diverse forme di vita, quando facciamo entrare alcune specie di viventi nel nostro ambito di esperienza rispettando e valorizzando la loro specificità.

Nel 1976 Erich Fromm pubblicava un saggio che ebbe allora notevole successo: “Avere o essere”. In questo saggio egli confrontava due modalità di esistere giocate una sull’impulso ad avere, l’altra sull’impulso a entrare in relazione con gli altri. Forse la crisi ecologica che stiamo vivendo può aiutarci a riequilibrare il nostro stile di vita, a collocare in una giusta gerarchia i valori materiali, quelli sociali, quelli culturali, quelli personali e, perché no?, anche quelli religiosi. Non c’è possibilità di costruire un mondo migliore senza la capacità di rinunciare ad alcune soddisfazioni; ma io temo non sia possibile rinunciare ad alcune soddisfazioni se non si possiedono altre fonti di gratificazione che siano sufficienti a motivare e compensare la rinuncia. Seguendo Fromm, si può rinunciare ad avere qualcosa se si è interessati ad essere di più, se il cammino di crescita personale – sensibilità, libertà, responsabilità, relazioni umane ricche, capacità di amare…- appare desiderabile. Probabilmente anche la responsabilità etica nei confronti dell’ambiente richiede questa forma di ‘conversione’. Si tratta di appropriarci di noi stessi, di prendere coscienza dei processi che avvengono dentro di noi (la conoscenza, la decisione, l’amore) in modo da viverli con maggiore consapevolezza e libertà, di sviluppare l’immaginazione (che apre maggiori spazi di libertà), essere autocritici… Insomma, costruire un mondo interiore più ricco e più maturo. Può sembrare che questa esigenza sia lontana dal problema ecologico, ma non è vero. Carl Friedrich von Weizsaecker scrive: “Tutti i pericoli che vediamo davanti a noi non riflettono un’impossibilità tecnica di trovare una via di uscita, ma piuttosto l’incapacità della nostra cultura di usare intelligentemente i doni della propria capacità inventiva.” Perciò egli richiede la formazione di uomini che sappiano confrontarsi in modo responsabile con le crescenti possibilità tecniche e immagina “una cultura ascetica del mondo” e cioè la capacità di prendere le distanze liberamente dal predominio del consumo. Quando ero giovane avevo letto in Gandhi che il vero progresso non consiste nel moltiplicare i bisogni ma nel ridurli liberamente. Forse le cose non stanno in modo così chiaro, ma è vero che nella gerarchia dei valori dobbiamo imparare a dare maggiore importanza a quelli dell’essere perché i valori dell’avere non soffochino la vita dell’uomo e, conseguentemente, dell’ambiente in cui l’uomo vive.

+Luciano Monari




30 gen 2015 00:00