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Brescia
di ROMANO GUATTA CALDINI 20 gen 2017 18:17

"Chiamatemi Francesco" con Old Cinema

Dalle prime incertezze di fronte alla proposta di realizzare un’opera incentrata su papa Francesco alla ferma convinzione di voler raccontare una storia che doveva essere conosciuta. Da qui prende le mosse l’intervista a Daniele Luchetti, regista di “Chiamatemi Francesco”, realizzata in occasione del primo appuntamento di Old Cinema Brescia 2017

Dalle prime incertezze di fronte alla proposta di realizzare un’opera incentrata su papa Francesco alla ferma convinzione di voler raccontare una storia che doveva essere conosciuta. Da qui prende le mosse  l’intervista a Daniele Luchetti, regista di “Chiamatemi Francesco”, realizzata in occasione del primo appuntamento di Old Cinema Brescia 2017. L’incontro è fissato per sabato 4 febbraio, con una giornata dedicata a Luchetti e al produttore Pietro Valsecchi. Il proiettore è puntato sul loro sodalizio e sul loro biopic internazionale su papa Jorge Bergoglio.

Daniele Luchetti: perché la scelta di dedicare un film a papa Francesco?

Semplice, avevo appena finito un film. Ero sul mercato. Poi è arrivato Pietro Valsecchi con questa idea che mi sembrava un po’ folle: conoscevo il Papa da quanto appreso dai giornali, da spettatore delle vicende quotidiane. Valsecchi, però, è stato molto furbo. Mi ha portato a Buenos Aires a indagare direttamente con persone che avevano conosciuto Bergoglio. Lì mi sono reso conto che c’era una storia, a prescindere dalla figura pubblica del Papa. Sono andato ad indagare quella che era stata la sua vita durante gli anni della “guerra sporca” della dittatura argentina. Ho capito che c’era qualcosa che avevo voglia di raccontare. Da un suggerimento, da un film su commissione, è diventato qualcosa di molto voluto, desiderato.

Che cosa l’ha colpita del viaggio in Argentina in relazione agli anni della dittatura?

La “vicinanza”. Ci sono ferite ancora aperte, fresche, è molto difficile parlare di questi argomenti con chi oggi ha 40/35 anni. C’è moltissima gente, soprattutto in determinate classi sociali, che è stata profondamente colpita dal terrorismo di Stato. Per un punto di vista o per un altro tutti ne sono stati coinvolti. Ho sentito commenti molto diversi: da quelli addolorati di chi ha avuto un parente scomparso a commenti più conservatori, più inquietanti, di chi diceva “la dittatura ci ha salvati dal comunismo, commenti provenienti anche da ambienti ecclesiali, interni alla curia di Buenos Aires. Stiamo parlando di qualcosa che è successo non l’altro ieri, è successo ieri.

Nel film ha privilegiato l’aspetto sociale rispetto al lato spirituale della persona del Papa. E’ stata una scelta voluta o dettata dalle necessità narrative?

Penso che sia molto difficile per me - laico, non cattolico, non credente - affrontare una dimensione molto diversa da quella civile, politica e umana. L’esperienza del trascendente, se così la vogliamo definire, è qualcosa che lascio raccontare ai credenti. Dal punto di vista narrativo mi interessava il racconto della vicenda umana e politica, anche per rispetto per quella che è una dimensione privata.

Chiamatemi Francesco è una produzione che è stata concepita per diverse piattaforme (cinema, tv, digital). Come è stato possibile combinare i linguaggi e le differenti modalità di racconto che le diverse piattaforme richiedono senza perdere di intensità?

E’ stato un lavoro essenzialmente del montaggio perché io ho scritto un film lungo, quello visualizzabile solo su Netflix internazionale, sono poi state fatte delle riduzioni, cercando, di volta in volta, di privilegiare una linea narrativa. La versione più breve, per il cinema, presentata in Italia, privilegia la storia della dittatura, cercando di tenere alta l’attenzione su quel racconto con pochissime deroghe ad altri stili narrativi.

Pensa che il futuro del cinema passi da questo canale? Da questa commistione di linguaggi?

Dipende. Ci sono dei film che possono permettersi di isolare un episodio e trasformarlo in un film e altri no. Sicuramente oggi la televisione, soprattutto il digitale, ha davanti a sé una strada aperta, nuova, tutta da esplorare. Fino a poco tempo fa ci accontentavamo di una televisione di bassa qualità perché era più o meno gratis. Era come l’acqua del rubinetto. Non sarà buona come l’acqua minerale, però è gratis. Oggi la televisione ha cominciato a trasmettere non più l’acqua, ma vino di buona qualità, quindi il cinema si deve adeguare. Se pensiamo alle serie televisive come quelle che si possono vedere su Netflix o su Sky, il cinema deve fare un gran lavoro per cercare di recuperare.  

ROMANO GUATTA CALDINI 20 gen 2017 18:17