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di ROMANO GUATTA CALDINI 20 mar 2022 10:52

Tutte le incognite sul fine vita

Con Giovanni Zaninetta, ex presidente della Società italiana cure palliative e attuale responsabile dell’Unità Operativa di Cure Palliative della Casa di Cura Domus Salutis di Brescia, affrontiamo in questa intervista tutte le incognite che pesano sul ddl Bazoli, recentemente approvato alla Camera e in attesa del passaggio in Senato.

Rispetto al testo precedente c’è stato un miglioramento? Qual è il suo parere nel complesso?

Ho l’impressione che ci sia stato lo sforzo di precisare al meglio le condizioni poste dalla Corte Costituzionale. Come medico, trovo significativa la sottolineatura dell’importanza delle cure palliative nell’ambito dei criteri per giudicare la possibilità o meno di accedere al suicidio medicalmente assistito. A monte, però, bisogna prendere atto, da parte mia lo faccio con molta fatica, che la società è propensa ad assumere scelte strettamente individualistiche, dimenticando la centralità della persona, l’importanza delle relazioni, il fatto che nessuno dovrebbe essere lasciato solo, soprattutto nel prendere certe decisioni. Come membro di una società civile, pur non sapendo che margini ci siano di miglioramento o di peggioramento della misura, dipende da ciò che avverrà in Senato, penso che ci troviamo di fronte a una sfida. Quella che dobbiamo affrontare non è né una battaglia di libertà né di civiltà. Ripeto, è un rifugio nell’approccio individualistico che per altro non tiene conto di chi ci sta accanto. La sfida consiste nel rendere il meno numerose possibili le richieste di accesso al suicidio assistito. Siamo chiamati ad assicurare delle cure adeguate, negli ultimi tempi di vita, con un’attenzione particolare alle persone sole. Non dimentichiamo che uno dei motivi per cui ci sono certe richieste è legato alla solitudine. Questo interpella la società e, a maggior ragione, la comunità cristiana.

Taluni sostengono che la legge apra le porte, in futuro, all’eutanasia, come è avvenuto in Belgio o in Olanda. È un’obiezione che ha un fondamento?

A mio modesto avviso è quasi certo. Una volta che si rende praticabile l’aiuto al suicidio è difficile pensare che poi non si passi a scelte eutanasiche. Tra prescrivere un farmaco per morire al somministrarlo, il confine è veramente labile.

C’è chi ha paventato il rischio che a “pagare” maggiormente tali aperture saranno i più fragili, soprattutto gli anziani, andando inevitabilmente ad alimentare quella “cultura dello scarto” su cui tanto insiste papa Francesco…

Credo sia molto verosimile. Aprire una porta simile significa “suggerire” l’approccio a questo passo alla persona anziana e sola, che di per sé già si sente un peso. Questa è una caratteristica frequente in persone malate da tempo. Parliamo di anziani prive di autonomia, dipendenti dagli altri. Se un malato già si sente di peso, l’incentivo a togliersi la vita può essere veramente forte. Questo avviene sempre quando manca una vicinanza, una prossimità a queste persone. Un altro fattore che dovrebbe essere valutato è il fatto che ogni volta che si parla di “fine vita” si mettono a fuoco sempre casi straordinari. Pensiamo a dj Fabo, era un caso estremamente straordinario che, se vogliamo, è stato anche strumentalizzato a fronte di un risultato che poi è stato ottenuto. Si dovrebbe, invece, guardare alla quotidianità, a tutte quelle persone che non hanno situazioni così drammatiche, ma che possono essere incoraggiate a scelte di quel genere proprio perché c’è la possibilità.

Perché non si insiste sulle cure palliative e si spinge invece verso forme “estreme” di accompagnamento alla morte?

Abbiamo uno strumento prezioso, la legge n. 38/2010 che garantisce l’accesso a cure palliative. Negli anni questa misura è stata completata con tutti i rispettivi regolamenti e atti amministrativi. Pensiamo all’organizzazione dei servizi domiciliari, degli hospice, dei servizi inter-ospedalieri. Pochi mesi fa è stata deliberata la creazione di scuole di specializzazione in medicina e cure palliative. Quindi anche la parte formativa è stata completata. Il fatto che di cure palliative si parli all’università, prima della laurea, con la possibilità di diventare specialisti in medicina e cure palliative, è sicuramente importante dal punto di vista tecnico. Questo pone le premesse affinchè gli operatori, medici da una parte e infermieri dall’altra, ricevano indicazioni non solo empiriche, ma basate su evidenze scientifiche. Altrettanto importante è il fatto che nella società, nell’opinione pubblica, si abbia un’idea adulta delle cure palliative. Purtroppo sussiste ancora l’idea che se di queste cure non si parla si allontana il pensiero della morte. Bisogna invece pensarci per tempo, parlarne e, proprio per questo, si può ricevere un aiuto concreto anche in condizioni difficili. Affermare in maniera assoluta che le cure palliative eliminino il problema dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito non è vero. Viceversa, questa è la condizione migliore perché certe scelte non vengano prese. Ci sono casi in cui per la malattia non ci sono più soluzioni, ma sussistono spazi di cura molto significativi per il benessere del malato. Se la società capisse questo le cure palliative verrebbero prese maggiormente in considerazione. Quest’ultime forniscono la possibilità di gestire la fase di transizione fra quello che la medicina può fare e quello che non può più fare per la malattia. In questo quadro, l’eutanasia come il suicidio assistito sono una nota dissonante in quanto non portano a una reale presa in cura del paziente ma, semplicemente, si dirigono verso una presa d’atto burocratica della volontà del malato. Deve essere chiaro: le cure palliative sono diverse diametralmente sia rispetto all’eutanasia sia rispetto al suicidio assistito.

ROMANO GUATTA CALDINI 20 mar 2022 10:52