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Brescia
di LUCIANO MONARI 02 gen 2017 11:11

Affrontare con coraggio il futuro

Non serve guardare al passato, ma è piuttosto importante guardare al tempo che viviamo: "C’è qualcosa di più importante - ha detto il vescovo Monari nella Messa di fine anno - da costruire e ci vogliono persone disposte a crescere, a studiare, ad agire assumendosi rischi e responsabilità" . Leggi l'omelia

Il primo dovere è quello di ringraziare. Alla fine di ogni anno, quale che esso sia, il credente deve ripetere, con sincera adesione del cuore, le parole della gratitudine: “Sii benedetto, Signore, per tutti i doni che, nella tua provvidenza, ci hai elargito in questo anno.” Ma questo è stato un anno maledetto!, obietta qualcuno. Non esistono anni maledetti; nemmeno l’anno della passione e della morte di Cristo può essere definito tale perché l’amore di Dio è stato più grande del male degli uomini e dal peccato ha saputo trarre il dono immenso della redenzione. Certo, esistono anni in cui il ringraziamento sgorga più facile e spontaneo perché ci sentiamo sicuri e intravediamo un futuro promettente; ed esistono anni in cui gli eventi s’ingarbugliano tanto che non riusciamo più a vedere bene la strada. Ma la fede non cede facilmente; sa che la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini. Sa che le ingiustizie degli uomini possono rendere più faticoso il cammino, possono purtroppo produrre sofferenze inutili, ma ha fiducia che il disegno di Dio si compia, magari attraverso strade traverse. È dunque saggio mantenere il riserbo perché la nostra visione delle cose è limitata e provvisoria. Nello stesso tempo, però, non possiamo esonerarci dallo scrutare il tempo che viviamo per cogliere la chiamata di Dio: “Signore, che cosa vuoi che facciamo?” Questa domanda ci accompagna sempre, nei momenti tristi della vita come in quelli gioiosi. Non pretendiamo di conoscere il futuro, ma sappiamo di potere e dovere cercare le vie per costruire, con il Signore, un futuro degno.

Qual è dunque il tempo che viviamo? Come rispondere alle difficoltà dell’economia? Come valutare il flusso ininterrotto di popolazioni che lasciano i loro paesi e cercano di attraversare le nostre frontiere? Per secoli noi Europei abbiamo occupato territori stranieri in tutti i continenti colonizzandoli e immettendoli nel circolo della nostra economia e della nostra politica. Abbiamo giustificato queste invasioni dicendo che portavamo la civiltà a popoli che non la conoscevano; i popoli ci hanno dato retta e ora vengono da noi per partecipare ai beni di quella civiltà che abbiamo fatto loro intravedere. Che cosa significa tutto questo? Significa quello che si chiama globalizzazione, mondialità: la percezione sempre più viva che il mondo degli uomini funziona come un’unità e che questo fatto è destinato a incidere sempre più profondamente sul vissuto dei singoli popoli. Scienza e tecnologia, che determinano in gran parte il nostro modo di vivere, non hanno colore o razza; gli strumenti della comunicazione contemporanea non conoscono e non sopportano confini; il mondo che si sta costruendo è un mondo dove lo spazio non separa e tende piuttosto a diventare luogo di incontro o di scontro, di scambio o di rapina, di relazione o di conflitto. Non ho competenza per dire che cosa tutto questo richieda a livello di scelte economiche e politiche, ma non è difficile dire che a livello culturale si tratta di una profonda rivoluzione, ben più profonda e duratura di quelle rivoluzioni che si risolvono nel cambiamento del regime di governo. Ogni cultura è una sintesi originale di vita sociale, che unifica e conferisce valore e significato a tutti gli elementi dell’esistenza dell’uomo: alla famiglia e al lavoro, all’educazione e al pensiero, alle istituzioni e all’arte. Proprio per questo ogni cultura costituisce un tesoro prezioso al quale i popoli sono tenacemente attaccati, spesso senza nemmeno rendersene conto, perché navigare all’interno della propria cultura è un fatto naturale, quasi come respirare. Oggi le diverse culture s’incontrano, si confrontano, si studiano, si misurano, si mescolano, si contrappongono, si temono. I risultati sono sotto i nostri occhi.

Si possono anche chiudere ermeticamente le frontiere, innalzare muri impenetrabili e insuperabili; ma si dovrà riconoscere che questi sono solo rimedi provvisori, tentativi illusori di dire che il problema non esiste o perlomeno che possiamo tirarcene fuori. Ma è una soluzione sbagliata perché non affronta il problema ma lo rimuove soltanto; e le rimozioni sono causa di nevrosi, cioè di comportamenti illogici, squilibrati. Il mondo andrà avanti comunque, anche senza di noi. E ci troveremo alla retroguardia, a rosicchiare un residuo d’osso sempre meno gustoso. Il nostro benessere nel passato è stato costruito anche sulla base di vantaggi commerciali negli scambi con le nazioni non industrializzate. Non so misurare il tasso di sfruttamento presente nei rapporti commerciali del secolo scorso, ma non c’è dubbio che abbiamo potuto godere di vantaggi di tipo monopolistico su tutte le merci sofisticate che la tecnologia occidentale sfornava sempre più abbondantemente. La situazione sta rapidamente cambiando: o cambiamo anche noi contribuendo alla costruzione di un mondo nuovo, o diventeremo impotenti laudatores temporis acti, nostalgici malinconici.   

Il discorso ha anche un risvolto strettamente religioso. Anche le religioni s’incontrano; in una piccola città come Brescia trovo mussulmani, sikh, induisti, buddisti… Capisco che questa mescolanza crea problemi. L’unità culturale del medioevo, quando ci si poteva spostare tranquillamente attraverso tutta l’Europa senza incontrare ostacoli, quando la visione del mondo era condivisa da tutti, ci appare a volte come un tempo di sogno; ma, appunto, oggi la realtà è diversa. Si può considerare la Riforma protestante con favore o con fastidio, ma è un fatto che essa ha spezzato una volta per sempre l’unità religiosa dell’Europa in un modo ben più radicale della separazione tra Ortodossia orientale e Cattolicità occidentale. Ma piangere sul latte versato fa solo perdere tempo e sprecare opportunità. Il dialogo tra le confessioni cristiane e tra le religioni è oggi una via obbligata; è perciò quello che il Signore ci sta chiedendo. Certo: il dialogo comporta dei rischi. C’è il rischio del relativismo, c’è il rischio del sincretismo, c’è il rischio supremo dell’indifferenza. Ma il fondamento del dialogo esiste ed è chiaro: è l’amore di Dio per tutti gli uomini, un amore che è da sempre e da sempre ha raggiunto concretamente tutti gli uomini, ciascuno nella sua religione. Forse che Dio non ama gli induisti? o che non ama i mussulmani? Certo, gli induisti sono peccatori e i mussulmani anche e dovranno convertirsi; ma nello stesso modo in cui siamo peccatori anche noi cristiani e dobbiamo convertirci. Se riconosciamo tutti di dovere convertirci a Dio, mettiamo in moto un processo virtuoso che condurrà verso il rispetto e l’amore reciproco. Non si tratta di lasciare o abbandonare le nostre tradizioni per assumere tradizioni diverse o per creare una nuova tradizione religiosa. Si tratta invece di portare le diverse tradizioni religiose a interagire tra loro nutrendo la convinzione (la speranza?) che in questo modo, ciascuna religione, acquistando maggiore consapevolezza della sua propria identità, acquisterà un significato più grande e contribuirà più efficacemente al bene di tutti.

Utopie? A vedere le violenze che si compiono per motivi religiosi verrebbe da pensarlo; a vedere quanti cristiani sono uccisi senza colpa, verrebbe da temerlo. Ma la mondializzazione è un fatto reale e quindi fonda una vocazione, un compito che il Signore ci propone. Rifiutare questa sfida e questo compito sarebbe quasi una forma di diserzione. Il cristianesimo, con il suo annuncio che Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi partecipe della vita di Dio – è l’annuncio del Natale, della festa di oggi – ha un significato per ogni uomo e non può ridursi a diventare una setta, una società religiosa in cui i membri cercano serenità.

Naturalmente, toccherà soprattutto ai giovani assumere queste sfide e rispondere con generosità, creatività, coraggio. E’ tempo di coraggio; la fede si manifesta oggi anche come coraggio di assumere responsabilmente la cura di questo mondo. Vorrei dire ai giovani che questa sfida contribuisce anche a dare sapore, valore, significato alla vita. Se solo non ci lasciamo affascinare dalle sirene allettanti di un’esistenza banale, fatta di difesa a oltranza dei livelli di consumo. Scriveva Saint Exupéry che l’uomo non può vivere a lungo solo di automobili e di aspirapolveri; neanche aggiungendovi internet e il tablet. C’è qualcosa di più importante da costruire e ci vogliono persone disposte a crescere, a studiare, ad agire assumendosi rischi e responsabilità. Questo ci sta chiedendo il Signore per gli anni che verranno.

LUCIANO MONARI 02 gen 2017 11:11