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Verolavecchia
20 nov 2017 08:17

Le radici della spiritualità di Paolo VI

Il vescovo Tremolada ha concluso ieri a Verolavecchia, paese natale di Giuditta Alghisi, mamma del futuro Papa, il suo cammino attraverso i luoghi montiniani. La sua omelia pronunciata nella chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Pietro e Paolo apostoli

Dopo la basilica delle Grazie e la natia Concesio (con la visita alla casa natale, all’Istituto a lui dedicato e alla parrocchiale di Sant’Antonino in cui il piccolo Giovan Battista Montini fu battezzato), il vescovo Pierantonio Tremolada ha concluso ieri a Verolavecchia quel pellegrinaggio tutto particolare attraverso i luoghi montiniani presente nel Bresciano. Della sua particolare devozione alla figura del Beato Paolo VI, il nuovo vescovo aveva parlato sin dal giorno della sua nomina a successore di mons. Monari alla guida della Chiesa bresciana. Di seguito il testo dell’omelia pronunciata a Verolavecchia, paese natale di Giuditta Alghisi.


Saluto con affetto tutti voi cari sacerdoti e fedeli della comunità di Verolavecchia e rivolgo il mio rispettoso ossequio alle autorità civili e militari che sono qui presenti. Vi ringrazio della vostra cordiale accoglienza. Mi fa piacere incontrarvi oggi come pastore della diocesi di Brescia, da poco qui chiamato dal Signore; ed io sento anzitutto vivo il bisogno di chiedere il sostegno della vostra preghiera, affinché possa compiere il mio importante servizio così come il Signore si attende da me.

Di questa Chiesa di Brescia voi siete una porzione eletta: siete infatti una delle parrocchie di questa diocesi, inseparabile da tutte le altre, ma avete anche una vostra originale identità. Un aspetto non secondario di questa identità è questo: la vostra parrocchia ha un rapporto particolare con la persona di Paolo VI. Ed è anche per questo che io sono qui oggi, perché vorrei qui concludere un ideale percorso sulle tracce di Paolo VI nella diocesi di Brescia. Dopo essere stato al Santuario della Madonna delle Grazie e a Concesio, eccomi ora a Verolavecchia. A questo luogo Giovanni Battista Montini era particolarmente affezionato. Lo dimostra il fatto che il 14 ottobre 1956, a meno di due anni dal suo ingresso come Arcivescovo di Milano, egli volle fare visita a questa comunità.

Il bollettino parrocchiale del settembre di quello stesso anno così annunciava il suo arrivo: “A tutti i Verolesi la notizia che Mons. G. Battista Montini verrà tra noi il 14 ottobre 1956. Ci viene volentieri a visitare perché qui ha passato da giovane le sue vacanze. Conosce quasi tutte le nostre famiglie”.

Ed ecco un passaggio del discorso che l’Arcivescovo Montini pronunciò in quella occasione alla popolazione di Verolavecchia, nella Chiesa parrocchiale; è uno stralcio abbastanza ampio, ma mi preme che lo ascoltiamo bene, per la forza e la bellezza che ha: “Passando per le vie del paese cercavo con gli occhi le facce di coloro che fossero del tempo mio e vedevo la folla della gioventù che mi circondava. Quanti e quanti anni sono passati, e sono quasi divenuto forestiero in mezzo a voi! Ma ci sono alcuni che sono del tempo mio, un tempo che il calendario registra lontano, ma he la memoria invece tiene ancora tanto vicino. Come si vive delle memorie d’infanzia, quanto questo patrimonio spirituale dei primi anni influisce sugli anni secondi e su quelli del tramonto della vita! Pare a me di essere ancora fanciullo in questo paese e tutte le care persone di quell’età mi passano adesso davanti all’anima e mi riempiono di commozione … Devo dirvi che le prime Settimane sante, in cui trovai un poema di bellezza e di profondità spirituale, mi furono svelate proprio in questa chiesa, quando a Pasqua – interrompendo le scuole – si veniva a vedere i primi alberi della primavera nei campi, e si conveniva in chiesa per le sacra funzioni.Devo dire che proprio qui, in questa chiesa, ho tanti ricordi spirituali. Qui il mio ministero fu esercitato e perciò mi sento obbligato a riversare in un significato spirituale religioso tutti i ricordi, anche umani e individuali, che qui mi legano e questi mi danno argomento e mi autorizzano, fedeli carissimi di Verolavecchia, a dirvi perché ho tanto senso di essere a voi legato. I vincoli naturali si trasformano in soprannaturali. I vincoli del passato diventano presenti, i vincoli esteriori diventano parola interiore …

Siate fieri di appartenere a questa parrocchia; abbiate la consapevolezza, abbiate la coscienza che da qui vi può venire la lezione vera della vita, da qui potete sapere perché si vive, perché si soffre, perché si lavora, perché si piange, perché si muore e perché si ama. I perché della vita vi possono essere svelati nel nome di Cristo, cui promettiamo insieme che saremo fedeli in questa casa del popolo, in questa casa di Dio che è la nostra parrocchia. E da questa coscienza e da questa fedeltà deve partire la nuova vita alla quale i tempi ci richiamano e a cui ci spinge il moto della storia e della civiltà”.

Sono parole toccanti, cariche di un sentimento profondo e sincero. Descrivono un’esperienza di Chiesa insieme semplice e intensa, che rimase incisa nel cuore del futuro papa Paolo VI e che gli permetterà di intuire sempre più chiaramente l’esigenza essenziale dei tempi che egli stava vivendo e che condurranno – per la decisione illuminata di papa Giovanni XXIII – al grande evento del Concilio Ecumenico Vaticano II. L’esigenza era quella di una la Chiesa più decisamente missionaria e proprio per questo più autentica, capace cioè di offrire la testimonianza attraente della vita nuova che – diceva appunto l’Arcivescovo Montini – “i tempi ci richiamano e a cui spinge il moto della storia e della civiltà”. Di questo il futuro papa era già convinto allora: il mondo ha sete di vita, della vita nuova la cui sorgente spesso sconosciuta è il Cristo risorto. La Chiesa può appagare questa sete e lo farà nella misura in cui sarà veramente se stessa. Se in lei si vedrà la grazia di Dio, la sua forza di salvezza, la sua misericordiosa benevolenza, la sua limpida santità, allora il mondo si aprirà a lei con fiducia; allora riconoscerà il mistero che la Chiesa annuncia, ne sarà consolato e proprio per questo la stimerà e la amerà.

Le parole pronunciate da Montini qui a Verolavecchia nell’ottobre del 1956 aiutano a comprendere più chiaramente lo spirito che lo animava sin dal primo momento del suo ingresso a Milano e sono in perfetta sintonia con quelle che egli pronuncerà al clero della diocesi ambrosiana in occasione della Missione indetta per la città dal 5 al 24 del novembre 1957, a poco più di un anno dalla visita qui a Verolavecchia. Le parole dei giorni della Missione a Milano sono più dirette e forse anche un po’ più severe: ma certo, il momento lo esigeva. Egli diceva: “Io penso che la religione oggi decada più per il senso di abitudine, di stanchezza e di consuetudine con cui si presenta, che per l’assalto dei suoi nemici. Ai tempi moderni, così mutati, così inquieti … noi offriamo spesso una presentazione del Cristianesimo che manca del senso del vivo, del mistero, del personale e del vissuto”. L’allora Arcivescovo di Milano temeva un’insidia pericolosa: quella – diceva – di “saperla lunga”. E precisava: “Noi già sappiamo! Sono cose grandi, belle, ma per noi non sono una novità. Le abbiamo meditate così tante volte, che formano la trama della nostra vita. Noi professiamo la religione e non abbiamo troppo bisogno di prendere ulteriore coscienza di che cosa la formi, la costruisca e la renda per noi obbligatoria. Siamo fedeli, siamo osservanti, cerchiamo di essere buoni ministri di Dio: non abbiamo niente da imparare di più”. Quando si spegne lo stupore per le meraviglie di Dio e ciò che viene annunciato nel Vangelo si trasforma in una stanca consuetudine religiosa, la testimonianza si spegne. Il mondo certo non si entusiasmerà di noi. Se il sale perde il sapore, non serve più a nulla. Solo chi è stato conquistato dalla grazia ne saprà svelare la bellezza. Diceva ancora l’Arcivescovo Montini ai milanesi: “Nelle anime moderne c’è una sete di vita religiosa autentica, che noi forse non sappiamo soddisfare perché non l’abbiamo soddisfatta in noi stessi”.

Egli credeva molto in una santità diffusa, capace di toccare tutte le persone e tutti gli ambienti, una santità che egli definiva “di popolo”. Nell’omelia della Solennità dei Santi che precedeva di qualche giorno l’apertura della Missione a Milano aveva affermato: “La Chiesa oggi tende ad una santità di popolo. È il disegno di Cristo che si profila attuale … A questa santità di popolo, che consiste in una vigile coscienza della nostra vocazione cristiana, nella professione e virile delle virtù, alimentate dalla preghiera e dalla grazia e sfociate in una carità generatrice di giustizia, di fratellanza e di pace, a questa elevazione spirituale, morale e sociale, conseguita con il concorsi di ciascuno, dobbiamo tutti mirare” (G. B. Montini, Omelia nella festa di tutti i santi”, 1 Novembre 1957).

Queste convinzioni dell’Arcivescovo Montini, dopo aver attraversato con loro loro fecondità il vasto mare del Concilio Vaticano II, approderanno alla grande Enciclica sulla evangelizzazione, che Paolo VI scrisse nel 1975, in occasione dell’anno santo, e che volle intitolare Evangelii Nuntiandi. Essa segna un passaggio decisivo nella riflessione sull’azione missionaria della Chiesa e rimane a tutt’oggi – secondo la testimonianza degli stessi pontefici successori di Paolo VI – il testo di riferimento su questo tema. In essa abbiamo un vero e proprio cambiamento di orizzonte nel modo di pensare la responsabilità missionaria della Chiesa: dalla preoccupazione per i destinatari dell’evangelizzazione si passa alla preoccupazione per gli stessi soggetti dell’evangelizzazione. L’attenzione va anzitutto allo stato di salute della Chiesa, condizione indispensabile per la salute del mondo. Si legge nell’enciclica: “Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa … Essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il Vangelo … Si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità” (EN 15). E più avanti afferma: “È mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà anzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e dio distacco, di libertà difronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità” (EN 41). In questo senso – come dice bene Lumen Gentium – la Chiesa è chiamata ad essere “il segno e il sacramento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (LG 1) e quindi a mostrare sostanzialmente la sua bellezza. Perché è proprio così: la Chiesa quando è vera è bella, molto bella! Essa è trasparenza dell’amore infinito di Dio in Cristo Gesù, è manifestazione attraente della vita eterna dentro la storia umana, è il popolo di Dio trasfigurato dalla luce della grazia. “La Chiesa – scrive sempre Paolo VI – non è uno schermo opaco; è un diaframma diafano, che ci abilita a metterci in contatto con Cristo”. È il contatto con Cristo è pienezza di vita, perché introduce nel mistero trinitario, oceano di amore e di beatitudine.

Di questa vita che scaturisce dalla grazia parla il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato – e così veniamo alla Parola di Dio dell’odierna celebrazione eucaristica. Il padrone che dà ai suoi servi i talenti – patrimonio decisamente consistente calcolando che ogni talento, d’oro o d’argento, corrispondeva a circa trenta chili – è il Padre dei cieli che rende i credenti partecipi delle sue ricchezze, della sua vita, della sua potenza e della santità. Nei primi due servitori è spontaneo il desiderio di far fruttificare il patrimonio che il padrone ha messo generosamente a loro disposizione. Essi non lo considerano proprio. Riconoscenti per la fiducia loro dimostrata, sentono la responsabilità di contribuire a rendere questo patrimonio ancora più abbondante. La loro gioia consiste nell’accrescerlo e il loro impegno è il modo con il quale dimostrano l’affetto che nutrono per il loro benefattore: della sua ricchezza, infatti, essi sono stati resi partecipi con grande generosità. Il terzo servitore ha invece ragionato in modo diverso. Egli ha nascosto per paura il talento ricevuto e alla fine si è presentato dal suo padrone riconsegnandolo identico. Il suo sentimento è diverso da quello degli altri due: nessuno slancio riconoscente e nessun desiderio di incrementare la ricchezza del suo signore, nessun affetto per lui e nessuna generosa intraprendenza. Ci sono invece il timore di compromettere il bene ricevuto e la comoda inattività. Tutto questo ci riporta a quanto detto circa la missione della Chiesa: riconoscenza e senso di responsabilità sono le ragioni di una testimonianza che ognuno di noi deve considerare doverosa. Non possiamo tenere per noi quanto abbiamo ricevuto: la vita nuova del Battesimo, la comunione con il Padre che è nei cieli, l’amore misericordioso di Cristo, la sua redenzione, i suoi misteri di salvezza, la comunione dei santi, insieme con le facoltà che fanno grande l’uomo e le nostre doti personali, tutto questo ci spinge con forza verso l’intera umanità. C’è un lieto annuncio da portare al mondo e un patrimonio di bene da condividere: Dio ha voluto renderci partecipi della sua ricchezza ed è giusto che il mondo lo sappia. La Chiesa lo annuncerà nella misura in cui lei stessa ne farà esperienza.

Era questa la grande convinzione di Paolo VI, il suo costante pensiero, divenuto sempre più chiaro negli anni della sua vita, fino a diventare uno dei punti qualificanti del suo ministro apostolico: la Chiesa sarà davvero missionaria nella misura in cui sarà sempre più se stessa, cioè trasparente della grazia di Cristo e quindi santa. Essa evangelizzerà il mondo se continuamente evangelizzerà se stessa, vigliando in umile atteggiamento di conversione.

Come abbiamo ascoltato dalla sua stessa testimonianza, la radici di questa potente spiritualità proprio di Giovanni Battista Montini ci portano anche a questo luogo, a Verolavecchia: qui egli ha imparato da ragazzo e da giovane ad aprirsi al mistero di Dio e a sentirsi parte di quella realtà di salvezza che è la Chiesa di Cristo. A voi dunque anzitutto questa eredità, insieme alla fierezza di sentivi parte di una comunità che egli ha tanto amato e a cui è rimasto interiormente legato. A voi da parte mia, insieme con il mio affetto, la benedizione del Signore”.
20 nov 2017 08:17