lock forward back pause icon-master-sprites-04 volume grid-view list-view fb whatsapp tw gplus yt left right up down cloud sun
Paderno Franciacorta
di MASSIMO VENTURELLI 27 ott 2023 08:20

Chiamato a dare alla vita qualcosa di grande

Le attese e le riflessioni di don Alessandro Nember che il 28 ottobre riceverà in Cattedrale l’ordinazione sacerdotale dalle mani del Vescovo

Un nuovo, importante appuntamento per la Chiesa bresciana. Sabato 28 ottobre alle 10 in Cattedrale, don Alessandro Nember, 43 anni originario di Paderno Franciacorta, riceverà dalle mani del vescovo Pierantonio Tremolada l’ordinazione sacerdotale. Il giorno successivo, domenica 29, il sacerdote sarà festeggiato dalla sua comunità, con la celebrazione della prima Messa alle 10 nella parrocchiale di San Pancrazio. A poche ore dall’ordinazione presbiterale, don Alessandro racconta in questa intervista il percorso che l’ha portato al sacerdozio, quando la vita sembrava averlo avviato verso una brillante carriera di avvocato

Don Alessandro, com’è la storia della sua vocazione?

La memoria remota della mia vocazione si colloca negli anni delle scuole medie, tra i dodici ed i tredici anni; iniziando a svolgere il servizio liturgico come ministrante, mi rendevo conto di come quella vicinanza all’altare fosse per me motivo di entusiasmo e di gioia. Così chiesi di entrare in Seminario; ma mi fu fatto presente che ero troppo giovane, e che il tempo per queste scelte sarebbe maturato più avanti.

Pertanto, proseguii gli studi – al liceo classico Arici – dove la curiosità e la scoperta progressiva del mondo fecero maturare anche l’attenzione verso ciò che accade nel mondo e nella società degli uomini: «homo sum, humani nihil a me alienum puto» (“sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”). La scelta quindi di proseguire gli studi universitari nell’ambito giuridico – nell’ambito delle scienze umane, cioè - fu una conseguenza di tale sensibilità giovanile.

Tuttavia, il percorso di studi e di lavoro – nel corso degli anni - venne progressivamente a perdere – per varie cause – l’attenzione verso il mondo e la società, trasformandosi in professione, produzione, organizzazione, obiettivi e budget: un’unica dimensione orizzontale incapace di quell’ampio respiro verso le altezze che avevano mosso gli entusiasmi giovanili. In questo modo, senza quasi accorgermene, si era persa quell’originaria attenzione all’umanità, e soprattutto alla mia umanità. Fu una sorta di deriva, di cui riconobbi gli effetti a distanza di anni; questo mi spinse a prendere in mano la mia vita.

Fu quindi un cammino progressivo, di cui ho acquisito la consapevolezza progressivamente, tra passi in avanti e passi indietro. Finché, un giorno, un prete mi disse: “Perché non torni a trovarci?”. Al di là delle chiare ragioni contingenti di quella domanda, sentii in essa l’eco di uno struggente appello a dare la mia vita per qualcosa di più grande di quanto stavo vivendo; il cuore trovava tutto così più piccolo di quanto desiderava. Quella domanda fece quindi da “detonatore”, dandomi la sufficiente consapevolezza della mia domanda profonda; da lì, iniziai a soffermarmi con gusto sulla Parola di Dio: di alcune preghiere e meditazioni di allora porto ancora – oggi - dentro di me il ricordo commosso e ancora vivo di una parola rivolta proprio a me: «Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi» (Ger 29, 13-14a).

Insomma – dopo un cammino di discernimento e di formazione di anni, cui devo molto al Seminario – mi rendo conto oggi che, in quelle vicende iniziali, Colui che mi interpellava era ed è proprio il Signore, il Verbo fatto carne, il quale «svela […] pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22).

Come hanno è stata accolta in famiglia la scelta del seminario? Quali le reazioni degli amici?

All’inizio, la mia famiglia si è un po’ trovata spiazzata davanti a questa scelta, anche a causa del fatto che essa è riemersa – come un fiume carsico - in età matura, dopo l’iniziale domanda durante l’adolescenza, come dicevo. Certamente, ha destato perplessità: l’acquisizione di uno status professionale poteva aver indotto a ritenere che ormai la ricerca esistenziale fosse terminata e che si trattasse di raccogliere i frutti di anni di studi e sacrifici. Tuttavia, bisogna anche dire che non mi è stato posto alcun ostacolo.

Nel marzo 2021 – cioè durante il difficile periodo del contagio da Covid – mio padre è morto per questa malattia: non so cosa mi avrebbe potuto dire nel giorno della mia ordinazione, se fosse sopravvissuto. Tuttavia, sono certo che, nella comunione dei santi, egli è presente, ed in particolare nella Messa di suffragio; il cammino vocazionale, che allora era già iniziato, mi ha aiutato ad affrontare la sua morte nella consapevolezza della fede, della vita eterna e della Risurrezione. E questo mi ha anche permesso di ringraziare il Signore per il dono della sua vita e della sua paternità.

Le reazioni degli amici sono state assai diversificate; mi piace ricordare chi ha camminato accanto a me, con discrezione, per tutti questi anni: una compagnia che mi ha costantemente rimandato ad una Presenza più grande, la quale non mi ha mai lasciato solo. Ad essi la mia profonda gratitudine. In questi giorni, ricevo tanti messaggi, e tra questi mi sono reso conto che qualcuno di loro è stato capace di osservare con profondità il mio cammino. A tutti il mio grazie, occhi per occhi, volto per volto.

Lei ha una laurea in giurisprudenza... Il passaggio dalla legge degli uomini a quella di Dio è stato semplice?

Sì, mi sono laureato nel febbraio del 2006, e – dopo gli anni della pratica e dell’esame di Stato – sono stato iscritto all’Albo degli avvocati fino al febbraio 2016 (mi sono cancellato volontariamente dall’Albo). Ho quindi lavorato per qualche anno in quest’ambito professionale, come ho accennato prima.

Si è trattato di un percorso soddisfacente ed interessate: mi ha permesso di maturare una prospettiva importante attraverso cui guardare all’uomo. Certamente, osservare l’uomo attraverso la sola prospettiva giuridica significherebbe impoverire l’identità profonda dell’uomo, che è rivelata pienamente in Cristo, vero Dio e vero uomo; tuttavia, credo che anche il parametro della giustizia e le istanze profonde che essa suscita nel cuore dell’uomo (più grandi quindi del mero normativismo) siano utili per capire – in parte – come il dato umano sia compreso dalla nostra contemporaneità; al di là delle complesse questioni di merito (che non affronto qui), si tratta di una via di dialogo con la modernità da non sottovalutare, altrimenti il rischio è quello di una sorta di distacco tra l’annuncio evangelico e la comprensione contingente che l’uomo ha di se stesso oggi, nel rapporto tra fede e cultura. Non solo: San Paolo VI, in modo assai originale, ha addirittura notato che la giustizia è la «misura minima» della carità[1].

Tuttavia, a questa consapevolezza sono giunto in una maturazione progressiva (e non ritengo sia terminata): dapprima, l’abbandono della professione legale si radicava in una esigenza di povertà spirituale, prima che materiale, che si liberasse delle costrizioni unidimensionali della vita frenetica ed efficientista odierna. Gli studi filosofici e teologici poi mi hanno fornito strumenti preziosi per pormi le domande profonde anche in questo ambito. Pensavo, tuttavia, di aver terminato con la mia esperienza giuridica.

Ed invece – con mia sorpresa - mi è stato chiesto di iniziare gli studi per la licenza in diritto canonico: questo ha provvidenzialmente riposto quell’attenzione al dato umano, nella prospettiva giuridica, dentro la questione seria del rapporto tra il diritto ed il mistero della Chiesa (Optatam totius 16), che – contrariamente a talune semplificazioni – è questione complessa: «la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino» (Lumen Gentium 8).


Che anni sono stati per lei quelli della formazione in Seminario?

Anni belli ed intensi, decisamente. Ho iniziato il mio percorso di discernimento e di formazione in un’età più avanzata rispetto a quella cui si è abituati. Ma questo non ha significato sentirsi già arrivato ad un punto ben assestato, anzi. Credo di poter riconoscere – nella formazione in Seminario - un percorso di crescita; per esempio, questo è emerso nell’ascolto della Parola di Dio o nella dimensione della fraternità, entrambi indispensabili per la vita ecclesiale e sacerdotale. Oltre a tutto il resto.

Un particolare ringraziamento va fatto agli educatori del Seminario, i quali sono stati innanzitutto testimoni di tutto ciò. E con essi, non posso dimenticare i seminaristi, i quali mi sono stati accanto sia nei momenti lieti, che nei momenti dell’afflizione: sono veramente ragazzi splendidi!

Inoltre, quando penso al Seminario, come anche nella mia parrocchia a Paderno Franciacorta, anche grazie a mons. Gianni Manenti, penso alla provvidenza di Dio, e soprattutto alla sua misericordia: anche qui - realmente – concretamente e nella mia esistenza – ho avuto modo di incontrare il volto del nostro Salvatore.

Si tratta quindi di un’esperienza di gratitudine, e sono consapevole che anche tutto ciò sarà offerto nella celebrazione della prima Eucaristia, che è appunto rendimento di grazie a Dio.

Quella del sacerdote, oggi, in un tempo in cui la quella della religione sembra un’esperienza sempre più estranea alla vita di un numero sempre maggiore di persone, è ancora una missione o ha più il sapore della sfida.

La natura stessa della Chiesa è missionaria, e quindi anche il ministero sacerdotale è legato a questa natura ecclesiale. In questo senso, S. Paolo ha detto ai presbiteri di Efeso: «Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al vangelo della grazia di Dio» (At 20, 24).

Bisogna, cioè, avere innanzi tutto la consapevolezza che è il Signore che ci guida, anche tra le prove e le difficoltà, e che è Lui che dà compimento alla storia della salvezza. A noi è chiesto di perseverare e restare fedeli - nel poco o nel molto -, collaborando alla sua azione di salvezza e misericordia.

Le difficoltà in campo non vanno certo negate. In alcune mie riflessioni, mi sono soffermato a pensare che la parte della percezione che l’uomo oggi ha della propria condizione – all’interno della nostra società – sia ben sintetizzata da Kafka: «C’è una meta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugiare»[2]. Cioè: mi chiedo se non ci sia una sorta di crisi nell’accoglienza della virtù della speranza (la quale ci invita alzare lo sguardo verso il cielo, a ricordarci che esso è aperto per i meriti di Cristo, e che da lì è già giunta la nostra salvezza nel Regno di Dio).

La speranza è virtù che Péguy chiamava la «virtù bambina», perché, pur essendo piccina, trascina e fa avanzare le sorelle maggiori, cioè la fede e la carità. Allora a noi anche il compito di annunciare Cristo (via, verità e vita) per dire che la via c’è, essa è Gesù. E che la verità e la vita sono Egli stesso, che svela il volto misericordioso del Padre!

[1] cfr. Paolo VI PP., Discorso per la giornata dello sviluppo - 23 agosto 1968: AAS 60 (1968), 626-627.

[2] F. Kafka, Quaderni in ottavo (26; 2004).

MASSIMO VENTURELLI 27 ott 2023 08:20