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Brescia
di MASSIMO VENTURELLI 03 set 2018 07:52

Preti a convegno sulla santità

All'Istituto Paolo VI di Concesio il convegno del clero che apre l'anno pastorale. È il primo presieduto dal vescovo Tremolada. La lettera pastorale "Il bello del vivere" e il tema della sinodalità al centro dei lavori. Giovedì 6 la conclusione in Cattedrale. Il Vescovo spiega in un'intervista la scelta del tema della santità

Prende il via domani, all’Istituto Paolo VI di Concesio, l’annuale convegno del clero, l’incontro tra il Vescovo e i preti bresciani che segna da sempre l’avvio di un nuovo anno pastorale. E’ il primo convegno del clero che mons. Pierantonio Tremolada presiede dal suo arrivo a Brescia, l’8 ottobre dello scorso anno. Nel corso delle prime due giornate il Vescovo si confronterà con i sacerdoti bresciani su temi che gli stanno particolarmente a cuore, quasi delle linee guida a cui intende informare il suo episcopato: la santità e la sinodalità. Sin dalla prima omelia, quella dell’ingresso in diocesi, mons. Tremolada li ha messi al centro della sua riflessione. Alla santità ha scelto di dedicare la sua prima Lettera pastorale (“Il bello del vivere. La santità dei volti e i volti della santità”) e la prima giornata del convegno del clero, mentre sul tema della sinodalità è tornato più volte nel corso dei suoi primi mesi a Brescia, riassumendo gli interventi più significativi nella pubblicazione “L’arte del camminare insieme” che sarà presentata ai sacerdoti nella giornata di mercoledì 5 settembre. La terza e ultima giornata del convegno si terrà, invece, nella Cattedrale di Brescia. Ogni giornata del convegno si aprirà alle 9.30 con la recita dell’Ora media.

È lo stesso mons. Tremolada, sull’ultimo numero de “La Voce del Popolo”, a spiegare le ragioni che l’hanno spinto a dedicare la sua prima Lettera pastorale al tema della santità e a illustrare il modo in cui ha concepito e realizzato questo documento.  Il Vescovo presenterà la lettera inaltri appuntamentii: al Convegno dei Consacrati delll’8 settembre, in mattinata, e a quellodegli operatori pastorali laici nel pomeriggio di sabato 8 settembre, alla Festa della Voce del Popolo lunedì 10 settembre e con una serie di incontri nei Vicariati territoriali secondo il programma allegato. Ecco l’intervista

Una prima domanda, forse un po’ banale: perché una Lettera pastorale sulla santità? È forse la risposta alla domanda: “Da dove vuoi partire” che lei si è posto pensando al suo episcopato e che ha riportato nelle prime pagine della stessa lettera?

Sì, lo è. È una domanda che sentivo come particolarmente importante perché è proprio l’inizio di un cammino che segna sin da subito il suo svolgimento. Per questo mi sono lasciato interrogare dalle domande: “Cosa ti sta veramente a cuore? Come vorresti impostare il cammino? Su cosa ritieni necessario concentrarti?”. Da subito ho immaginato che la risposta dovesse abbracciare un orizzonte ampio. Non si trattava semplicemente di mettere a tema un argomento, il primo di tanti, ma di delineare un cammino, di indicare un percorso. In questo mi è stata di grande aiuto la tesi di fondo della Novo millennio ineunte che San Giovanni Paolo II scrisse all’inizio del millennio: la Chiesa nel nuovo millennio doveva camminare su due binari. Il primo era quello della contemplazione del volto di Gesù; il secondo era quello della testimonianza della santità. La sopraggiunta conferma della canonizzazione di Paolo VI ha fatto il resto; ho capito che anche questa bella notizia era un messaggio importante da non sottovalutare. Forse, anche grazie a lui dobbiamo metterci in questa strada e interrogarci su cosa significhi per noi camminare nella santità.

La santità è “il bello del vivere”. Eppure nelle nostre comunità, nei nostri cuori, facciamo fatica a comprendere questa bellezza...

Già nelle prime pagine della lettera ricordo come la parola “santità” rischia, se non viene intesa in modo corretto, addirittura di provocare una sorta di rifiuto, di allontanamento: non è cosa alla mia portata! È poi radicata l’idea che la santità porti con sé il sacrificio nella sua forma estrema. Per questo mi preme in modo particolare far capire che, in realtà, la santità riguarda tutti perché è la forma bella della vita, o meglio, è la vita stessa nella sua forma più autentica: è l’umanità così come Dio l’ha pensata all’inizio e come il frutto della redenzione, liberata da tutto ciò che la offende, la ferisce, la intristisce, la rende crudele e volgare, quell’umanità che non ci fa paura, che abbiamo piacere di incontrare. I santi non sono soltanto sacerdoti, religiosi, religiose, vescovi, cardinali o papi. Sono persone che hanno avuto ruoli diversi nell’ambito della società, che hanno vissuto semplici esperienza quotidiane, persone che hanno avuto grandi responsabilità a livello sociale, che hanno avuto responsabilità educative… È questo che mi sta particolarmente a cuore: far capire che la santità si fonde con la vita stessa quando questa vita manifesta la sua bellezza.

In un passaggio della Lettera lei scrive che la “santità non è un argomento di cui trattare o un tema di cui discutere”: affermazioni che le avranno richiesto un impegno particolare nel concepirla. Come ha impostato questa sua prima lettera?

C’è un passaggio della lettera in cui ricordo che se volessimo essere rigorosi dovremmo parlare di santi e non di santità. Non esiste la santità, esistono i santi che hanno un volto, un nome. Non a caso, dunque, il sottotitolo della lettera è “La santità dei volti e i volti della santità”: la santità si vede, infatti, nel volto, nella concretezza del vissuto di ogni singola persona, con il suo nome, con la sua esperienza. Dall’altra parte, però, non possiamo dimenticare che diversi sono i modi in cui si manifesta e si presenta la santità. La lettera, dunque, non si limita a raccontare episodi ma cerca di sviluppare una riflessione. Ho, così, voluto corredarla con alcune video interviste (disponibili a partire dai prossimi giorni, ndr). Nella lettera ci sono dei volti, dei ritratti di persone reali che si raccontano. Sono persone della nostra diocesi che dicono e presentano se stesse e la loro vita cercando di fare emergere quel frutto della grazia che poi ha reso la loro vita testimonianza di bellezza. Anche il linguaggio che ho cercato di utilizzare non è quello di un’argomentazione sistematica, elaborata e rigorosa, ma quello di una comunicazione più diretta. Ho cercato di descrivere ciò che si può sentire e sperimentare mettendo per iscritto un’esperienza che tutti possiamo condividere.

Nella lettera lei parla di “forma comunitaria della santità”: si tratta di un’immagine suggestiva, ma anche impegnativa. Le sue parole sembrano quasi chiedere alla Chiesa bresciana, alla comunità diocesana di verificare quanto si sia impegnata o si stia impegnando per vivere questa esperienza...

Sì. La Chiesa che si definisce “una, santa, cattolica e apostolica”, e lo è per grazia, deve anche dimostrare di esserlo. A volte gli uomini di Chiesa rischiano di tradire la sua santità. Non bisogna, però, dimenticare che tutti siamo uomini di Chiesa; ogni battezzato è chiamato a portare la propria testimonianza di quella santità che è propria della Chiesa. Per questo ho voluto sottolineare la dimensione comunitaria della santità. Quando pensiamo ai santi normalmente immaginiamo singole persone. In realtà c’è anche la comunione di santi. Si tratta di un’espressione che la Chiesa utilizza per indicare la comunità di tutti coloro che vivono nella luce della grazia. Ci sono quei santi che onoriamo e che abbiamo messo nei calendari e sugli altari; insieme a loro, però, ci siamo anche tutti noi, chiamati a vivere l’esperienza della santità. La Chiesa, poi, ha dei momenti in cui percepisce in modo chiaro la sua santità, a prescindere dai comportamenti di ciascuno: sono i momenti in cui celebriamo l’eucaristica, il battesimo, la cresima, quando sostiamo in preghiera tutti insieme. Qui c’è qualcosa che non può essere ricondotto alle dinamiche di quel vissuto socio-politico che normalmente utilizziamo per definire la convivenza tra le persone. C’è quello che il Concilio Vaticano II ha chiamato il mistero della Chiesa, che rimanda a quella che è la sua sorgente, l’opera stessa di Cristo, la sua passione e la sua resurrezione.

“Il bello del vivere” può interpellare anche la società civile?

Dalla santità intesa come attuazione di quella chiamata che per i credenti deriva dal dono del battesimo, scaturisce anche una visione della realtà, un modo diverso di guardare il mondo. Ho fatto riferimento in modo particolare alla Laudato si’ in cui papa Francesco parla di “paradigma alternativo”, di un mondo diverso non solo per guardare alla realtà, ma anche per costruirla, un paradigma che va a contestare quello che si sta imponendo e che il Papa definisce “economico e tecnologico”, in cui c’è un’economia che viene assolutizzata a partire dal principio del profitto e che finisce col governare un po’ tutto, e una tecnologia che viene enfatizzata. Non può essere, però, questa la prospettiva nella quale ci collochiamo, anche perché corriamo il rischio di cadere in una logica consumistica che finisce per portare alla distruzione della nostra profondità. Parlare allora di santità significa andare a recuperare il ricordato primato dell’interiorità a cui corrisponde un’esperienza del bello del vivere che è capace di contestare quel paradigma economico e tecnologico senza però privare l’uomo del positivo che questo può anche offrire. In questa prospettiva credo che parlare della santità non sia stare sulle nuvole, ma offrire una chiave interpretativa del tutto e della convivenza umana che poi ha delle conseguenze anche molto concrete sul piano della gestione della socialità.

Lei indica la preghiera come via per la santità e per primo si assume l’impegno continuativo di un appuntamento settimanale alle Grazie. Non riusciamo a comprendere e a vivere sino in fondo la chiamata alla santità perché preghiamo poco?

Credo proprio di sì. Parlare della preghiera e della sua importanza potrebbe dare l’impressione di non avere il senso della realtà e di non comprendere il compito e le responsabilità che la vita mette davanti. In realtà non è così. Dobbiamo recuperare l’importanza e il primato di questa relazione con Dio che poi riempie l’interiorità di ogni uomo e lo mette nella condizione di affrontare le proprie responsabilità dentro un mondo a cui ci si accosta con un grande affetto e con un alto senso critico.

MASSIMO VENTURELLI 03 set 2018 07:52