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Brescia
di + PIERANTONIO TREMOLADA 29 mar 2018 10:30

Tremolada: Chiesa che cammina insieme

Nell'omelia della Messa crismale il vescovo Pierantonio si sofferma su come vivere concretamente la sinodalità. “Una Chiesa sinodale – come dice papa Francesco – è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire". Spiega come valorizzare gli organismi di sinodalità, in particolare il Consiglio Episcopale, il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale diocesano

Un saluto cordiale a tutti i confratelli vescovi. Un saluto particolare al vescovo Luciano, la cui presenza ci rallegra e ci onora. Un pensiero grato e affettuoso ai vescovi Giulio e Bruno. E un saluto a voi, carissimi presbiteri e diaconi di questa amata Chiesa di Brescia.

Ci riuniamo oggi per la celebrazione della Messa del Crisma ed è per me è la prima volta in cui vivo con voi questo momento singolare di comunione nella fede e nel ministero. E sono felice di ricordare, insieme a tutti voi, gli anniversari di vita sacerdotale di alcuni fratelli presbiteri, a cui va il mio sincero e affettuoso augurio.

I testi delle sacre Scritture che questa solenne liturgia ci ha fatto ascoltare parlano di una consacrazione che è insieme missione. Il libro del profeta Isaia ci presenta un servo del Signore che è consacrato con l’unzione ed è inviato ad annunciare la lieta notizia ai poveri. Non dunque un uomo del sacro separato dal mondo, ma un profeta e un ambasciatore, potremmo dire un apostolo, che condivide la vita dei suoi fratelli e ricorda loro le promesse di Dio. La consacrazione di Gesù conferma questa visione di consacrazione inseparabile da un ministero. Nella sinagoga di Nazareth Gesù ripete le parole di Isaia e le porta a compimento.

Se il termine “consacrazione” richiama a noi immediatamente la figura del sacerdote, dovremo ricordare che il sacerdozio di Cristo – come ben ci insegna la Lettera agli Ebrei – non corrisponde al modello di Aronne, ma a quello di Melchisedech e trova nella passione e resurrezione del Signore la sua piena attuazione. È un sacerdozio che si esercita nella vita intera e assume la forma dell’offerta libera e generosa di se stessi, momento per momento, in obbedienza al volere di Dio e per la salvezza del mondo. Il Battesimo cristiano introduce in questo inedito sacerdozio di Cristo e fa di tutti i battezzati “un regno di sacerdoti”, servitori di Dio santi e immacolati (cfr. LG 40). Il nostro ministero, di vescovi, di presbiteri e di diaconi, è a totale servizio del popolo santo di Dio e del suo sacerdozio. Così e solo così andrà inteso. Quanto all’essenza di questo sacerdozio comune a tutti i battezzati, al suo frutto e alla sua esperienza, essa va ricercata nella misericordia di Dio: siamo tutti poveri a cui è stato annunciato – come dice sempre Isaia – l’anno di grazia del Signore.

Di questo cammino di santificazione ecclesiale, che tutti siamo chiamati a compiere per il bene del mondo, vorrei oggi mettere in evidenza un aspetto che mi sta molto a cuore, cioè la sinodalità. Mi preme, in particolare, che il mio servizio episcopale alla Chiesa di Brescia assuma da subito questa precisa modalità, che ritengo essenziale.

Faccio mia un’affermazione di papa Francesco in un suo recente discorso. Egli dice: “Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Si tratta di una dichiarazione molto chiara e molto forte, che ci affida un compito inderogabile e assolutamente prioritario. “Dio si aspetta questo per il terzo millennio!” – ci dice il sommo pontefice. La motivazione viene poi così formulata: “Il mondo in cui viviamo e che siamo chiamati ad amare e a servire, anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti i suoi ambiti della sua missione”. La sinodalità è quindi espressione di una Chiesa in missione, apostolica, estroversa, protesa con amore al bene dell’umanità, desiderosa di portare a tutti la forza generativa del Vangelo.

Ma cosa dobbiamo intendere per sinodalità? E come immaginarla in atto nella Chiesa? La sinodalità – potremmo dire – è il camminare insieme di tutto il popolo di Dio, un camminare che avviene dentro la storia degli uomini, in comunione con il Cristo vivente e in ascolto dello Spirito santo.

Nella sua etimologia, la parola sinodalità richiama immediatamente l’idea di un popolo e di un cammino comune. La Chiesa di Cristo può essere certo definita “popolo” – lo fa la stessa sacra Scrittura – ma a condizione che si dia a questo termine il senso derivante dalla sua origine. La Chiesa sorge infatti dalla rivelazione di Dio dentro la storia umana e in particolare dalla Pasqua del Signore. La Chiesa – come si legge nella prima lettera di san Pietro apostolo – è “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9). La Costituzione dogmatica Lumen Gentium la definisce “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (cfr. LG 1) e aggiunge: “Questo popolo messianico ha per capo Cristo, ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, ha per legge il nuovo precetto dell’amore e ha per fine il Regno di Dio… Pur non comprendendo di fatto tutti gli uomini e apparendo talora come piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (cfr. LG 9).

La sinodalità si comprende solo a partire da questa singolare modalità della Chiesa di essere popolo, dalla sua identità insieme storica e mistica (cfr. LG 8), dalla sua meravigliosa natura, che non trova analogia in ciò che l’umanità ha conosciuto prima dell’apparire tra noi del Cristo salvatore. La stessa concezione di popolo, dunque, acquista una valenza del tutto nuova, perché la Chiesa è anche il Corpo mistico di Cristo (cfr. LG 7), è il campo di Dio, è l’edificio santo composto di pietre vive, è la vigna del Signore, è il tempio dello Spirito santo, è la sposa dell’agnello che attende le nozze finali (cfr. LG 6).

Questo popolo, che è la comunità dei redenti in Cristo, cammina nel tempo, abita la terra, è parte integrante delle generazioni umane che si alternano lungo la storia. È lievito e sale per il mondo perché custode e annunciatore del Vangelo. La sua è una missione che si attua in risposta ai desideri immutabili dell’animo umano ma anche alle mutazioni proprie delle singole epoche storiche. Questa missione si precisa nel confronto con le differenti culture, con i diversi modi di pensare, con le esigenze e le sfide derivanti dalle concrete condizioni di vita. Nel suo camminare dentro la storia e nel suo dialogo con l’umanità, la Chiesa non è abbandonata a se stessa: la sostiene e la accompagna la presenza misteriosa del Risorto (cfr. Mt 28,16-20) e l’azione illuminante dello Spirito santo. Quest’ultimo – ci dice la Scrittura – assume per i discepoli del Signore il ruolo di Paraclito, cioè di avvocato difensore e insieme di maestro interiore. La sua presenza è quella dell’ospite dolce dell’anima, del padre dei poveri, del consolatore perfetto, fonte di sapienza e amore.

Giungiamo qui a un punto cruciale, perché allo Spirito si deve la capacità, da parte della Chiesa, di comprendere ciò che è giusto, ciò che è bene per il momento che si sta vivendo, ciò che corrisponde alla volontà di Dio per la salvezza del mondo. È ciò che chiamiamo discernimento, cioè riconoscimento umile e grato del volere di Dio qui e ora, in forza della fede e nella forma della carità.

La Chiesa è chiamata a compiere costantemente quest’opera di discernimento proprio attraverso l’esercizio della sinodalità, cioè grazie all’apporto di tutti coloro che con il Battesimo sono diventati fratelli del Signore. L’intero popolo di Dio ha infatti ricevuto nel Battesimo lo Spirito santo e con questo il carisma della profezia, grazie al quale è dato a ciascuno di conoscere la volontà di Dio e di svelarla a beneficio della Chiesa.

Chi cammina sa dove sta andando, sa cioè in chi direzione muoversi. Chi poi cammina insieme, sa anche come procedere per non sciupare energie, sa come fare per rimanere uniti e sostenersi a vicenda. È ciò che fa il popolo di Dio in forza della sinodalità. Fuor di metafora, dunque, sinodalità è quel pensare, decidere e agire insieme che si compie nella Chiesa secondo il cuore di Cristo e che deriva dalla comune esperienza dello Spirito. Secondo il principio sinodale, tutti i battezzati hanno un contributo da offrire al discernimento e alle decisioni, poiché ognuno è portatore di una grazia dello Spirito unica e irripetibile. Cipriano di Cartagine diceva ai suoi presbiteri: «Sin dall’inizio del mio episcopato mi sono proposto di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza il vostro consiglio e senza la voce del mio popolo».  

Ma come si vie allora concretamente la sinodalità? In che modo la si esercita di fatto?  “Una Chiesa sinodale – dice papa Francesco – è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare… L’uno in ascolto degli altri e tutti in ascolto dello Spirito Santo”. Come ricorda il veggente dell’Apocalisse alle sette Chiese dell’Asia: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (cfr. Ap 2,7. 11, 17, ecc.).

Se la Chiesa fosse un luogo di relazioni di potere, esercitato da chi sta in alto su chi sta in basso, non ci sarebbe nessuna differenza rispetto alle organizzazioni umane e ai sistemi politici, i quali per altro sono essi stessi chiamati a guardarsi da una simile logica.

Il comando di Gesù ai suoi discepoli è stato invece quello di non seguire questo stile, bensì di costituire delle comunità diverse, dove si segue un’altra legge (cfr. Lc 22,24-27). “All’interno della Chiesa – dice ancora papa Francesco – nessuno può essere elevato al di sopra degli altri. Al contrario è necessario che qualcuno si abbassi per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino. Gesù ha costituito la Chiesa ponendo al suo vertice il Collegio apostolico, nel quale l’apostolo Pietro è la “roccia” (cfr Mt 16,18), colui che deve confermare i fratelli nella fede (cfr Lc 22,32). Ma in questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base. Per questo coloro che esercitano l’autorità si chiamano “ministri”: perché, secondo il significato originario della parola, sono i più piccoli tra tutti. È servendo il popolo di Dio che ciascun vescovo diviene, per la porzione del gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli (cfr Gv13,1-15)”.

L’immagine della piramide rovesciata è davvero suggestiva. In alto non c’è il vertice ma c’è la base, c’è l’intero popolo di Dio e non la gerarchia. Vi fossero il papa, i vescovi, i presbiteri e i diaconi, ci troveremmo davanti a uno schema molto simile a quello mondano. Certo, anche nella Chiesa non potrà mancare l’autorità, ma quelli che la esercitano stanno in basso non in alto. La piramide si forma perché rispetto al popolo di Dio i ministri costituiscono un gruppo limitato e tra loro si rapportano in modo da rendere possibile una sintesi sempre più unitaria, che sia fedele al mandato apostolico del Signore. È per questa stessa ragione che la piramide ha un vertice e che questo vertice è costituito dal servus servorum Dei, ciò il sommo pontefice. Tutto è però a servizio del sentire spirituale del popolo di Dio, del suo discernimento, del suo carisma profetico e sapienziale.

Se pensiamo al vescovo e al suo compito, dovremo dire – citando Evangelii Gaudium – che esso si realizza stando a volte davanti al popolo di Dio per indicare la strada e sostenere la speranza, ma anche stando in mezzo, per manifestare la sua vicinanza, o addirittura stando dietro, perché ci sono occasioni in cui è opportuno lasciarsi guidare dal fiuto infallibile del gregge che sa indicare nuove strade (cfr. EG 31). Qui il ruolo del pastore si qualifica come vero e proprio ministero della sintesi e non come azione di comando. Il vescovo non è un monarca e un solitario. E i presbiteri non sono i suoi subalterni e neppure semplicemente i suoi rappresentanti o delegati. Al contrario, come dice il Concilio Vaticano II essi sono “necessari collaboratori”. Il vescovo non potrà mai farne a meno se vorrà vivere in verità il suo ministero. Egli dovrà sempre decidere con loro e grazie a loro. I presbiteri, a loro volta, dovranno essere espressione e voce dell’intero popolo di Dio, quel popolo che il vescovo dovrà comunque ascoltare anche in altri modi, consentendo a ciascuno di far giungere la voce profetica dello Spirito che parla attraverso ogni battezzato. Il discernimento è infatti di tutto il popolo di Dio e i ministri, presbiterio e vescovo, sono chiamati a condurlo a compimento, dandogli unità e portandolo a sintesi. Il vescovo porrà il sigillo a questo discernimento autenticamente ecclesiale, facendosi garante della forma apostolica delle scelte compiute, cioè della loro piena sintonia con il deposito della fede.

Neppure i presbiteri, tuttavia, dovranno mai considerarsi totalmente autonomi nelle loro decisioni. Anche il loro, infatti, è un ministero di comunione e di sintesi in ordine a un discernimento che è e resta del popolo di Dio. Anch’essi sono chiamati anzitutto a dare la parola ai battezzati che come loro hanno ricevuto lo Spirito santo e che fanno parte della loro comunità cristiana. Quel popolo che sta sopra di loro, di cui essi fanno parte e che sono chiamati a servire, domanda di essere onorato ed educato, nella riscoperta della sua identità e della sua missione. Propriamente è il popolo di Dio che decide, aiutato dai suoi presbiteri, il cui compito è quello di essere pastori, non comandanti o condottieri. Non si potrà immaginare una comunità cristiana nella quale il presbitero decide in piena solitudine, facendo appello unicamente al suo sentire e al suo pensare.

E non si tratta di applicare modelli desunti dal contesto sociale e politico della convivenza civile. La Chiesa non è né monarchia, né democrazia e neppure aristocrazia. È appunto Chiesa, famiglia di Dio e comunione dei santi. La Chiesa è una, santa, cattolica ed apostolica. In quanto apostolica essa è ministeriale e proprio come tale è sinodale: il discernimento del popolo di Dio non si dà senza i ministri ordinati ma questi vanno intesi appunto come servitori e non come dirigenti. Fratelli tra fratelli, discepoli del Signore, essi esistono per consentire al popolo di Dio di essere veramente essere se stesso.

Ci attende una conversione spirituale profonda e necessaria, perché un simile modo di intendere la Chiesa e il nostro di ruolo di ministri al suo interno non va da sé. Dovremo chiedere allo Spirito grande docilità alla sua rivelazione e al suo insegnamento, dovremo crescere nella fede e nella carità.

Nel tentativo umile ma deciso di dare attuazione questa sinodalità nella nostra diocesi, ho inteso valorizzare il più possibile gli organismi di sinodalità già previsti dal Codice di Diritto Canonico e già presenti nella Chiesa. Mi riferisco in particolare al Consiglio Episcopale, al Consiglio presbiterale e al Consiglio pastorale Diocesano. Mi preme che ognuno di questi organismi possa svolgere la sua funzione nel modo migliore e secondo le sue finalità.

Intenderei conferire particolare rilevanza al Consiglio Episcopale diocesano, consapevole della sua funzione di supporto diretto al vescovo nella fase delle decisioni ultime, da intendere sempre come sintesi del discernimento comune precedentemente compiuto. Ho ritenuto opportuno istituire all’interno del Consiglio episcopale alcune specifiche figure di Vicari episcopali che consentissero al Consiglio stesso di svolgere in modo sempre più adeguato il suo compito, così come lo immagina anche la mia sensibilità e il mio modo di operare. Si tratta in particolare, oltre al Vicario Generale e al Vicario per la vita consacrata, del Vicario per il clero, del Vicario per la pastorale e i laici, del Vicario per l’amministrazione. Ho voluto inserire nel Consiglio Episcopale anche quattro Vicari territoriali, cui intendo affidare, insieme con me e con il Vicario generale, la responsabilità di guida della vita della Chiesa in quattro grandi aree, per guardare la nostra diocesi nel suo insieme rispettandone però le interne diversità. Sento il bisogno di avere contatti costanti con l’intero nostro popolo di Dio disteso su un ampio territorio: considero indispensabili collaboratori che mi aiutino a fare questo.

Desidererei inoltre vivere con i due Consigli presbiterale e Pastorale un’esperienza fruttuosa di vero discernimento pastorale: non riuscire ad immaginare un cammino di Chiesa senza il confronto costante che matura all’interno di questi organismi. Mentre ringrazio tutti coloro che ne fanno parte, chiedo loro di contribuire con franchezza e generosità a renderli sempre più arricchenti ed efficaci. Siano davvero luoghi di ascolto dello Spirito e di comunione fraterna.

Raccomando infine a tutti i presbiteri di aprire la mente e il cuore al valore della sinodalità nella Chiesa. A tutti chiedo di interrogarsi sul modo in cui ognuno sta vivendo la sinodalità dentro la comunità di cui è pastore. Invito tutti a rilanciare con decisione e creatività gli organismi locali della sinodalità, cioè i Consigli pastorali parrocchiali, i Consigli delle Unità pastorali e delle zone.

Il cammino che sin qui compito è grazia del Signore. A noi il compito di proseguirlo mantenendoci in ascolto dello Spirito. Il mondo ha bisogno oggi più che mai della testimonianza della Chiesa di Cristo, del Vangelo proclamato e vissuto. Portare ai cuori degli uomini e delle donne di oggi la Parola che salva e consola è la missione che il Cristo ci affida. Camminare davvero insieme come popolo di Dio è il modo in cui mostrare al mondo i frutti della grazia. Ci conceda il Signore di farlo, con gioia ed umiltà.

+ PIERANTONIO TREMOLADA 29 mar 2018 10:30