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Brescia
di + PIERANTONIO TREMOLADA 15 feb 2020 12:00

Uno sviluppo sostenibile perché etico

L'omelia pronunciata dal vescovo Tremolada durante la S.Messa pontificale nella Basilica dei Santi Faustino e Giovita

Nella festa dei nostri santi Patroni si eleva a Dio la nostra lode e il nostro cuore si apre alla gratitudine. La loro misteriosa presenza e la loro preziosa testimonianza sono per noi motivo di consolazione e rendono più sicuro il nostro cammino. Stendendo su tutti noi il manto della loro protezione, essi ci fanno sentire più uniti, ci ricordano che siamo chiamati a sentirci sempre più una comunità e che abbiamo un’identità da riscoprire continuamente e da onorare.

I nostri patroni Faustino e Giovita sono dei martiri e i martiri sono dei vincitori, uomini e donne che sono stati capaci di vincere la morte. La loro ultima parola è stata una parola di perdono. Nel momento della loro morte violenta non hanno urlano di rabbia, non hanno minacciato vendetta: il loro modo di guardare al mondo è stato segnato da una profonda e invincibile benevolenza, dal desiderio di vederlo perfetto, rinnovato, guarito, redento. Nessun carnefice può infatti impedire al martire di continuare ad amarlo e di chiedere al Dio della vita di rendere feconda la sua morte. In questo modo la vittoria cambia decisamente direzione: chi doveva essere annientato diventa principio di vita.

Si può allora ben comprendere che due giovani martiri dei primi secoli si trasformino, secoli dopo, in meravigliosi difensori di una città, la nostra città di Brescia, in un momento drammatico della sua storia. Coloro che donano la vita per amore diventano per amore custodi della vita di una intera comunità civica. Pensando alla testimonianza dei nostri santi patroni, si può affermare che essa è stata un inno alla vita e insieme l’annuncio di una salvezza che deriva dall’amore di Cristo. Proprio come scrive san Paolo nel passo della Lettera ai Romani che abbiamo sentito proclamare come seconda lettura: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per colui che ci ha amati” (cfr. Rm 8,35-37). L’amore vittorioso del Cristo risorto diventa efficace nella testimonianza dei suoi discepoli: si carica di vita. Nei santi martiri questo è particolarmente evidente, ma in verità accade per tutti i discepoli del Signore. Grazie a loro l’umanità è aiutata a guardare il mondo con verità, a gustarne le gioie, a valorizzarne le risorse, a promuoverne le potenzialità, ma anche a sanarne le infermità, a smascherarne le illusioni, a contrastarne la malvagità. I discepoli del Signore sono come delle sentinelle che nella notte tengono viva la speranza dell’aurora, ricordano che la vita vera ha la forma della luce e che il cuore non può rassegnarsi a perdere la speranza.

È con questo sentimento che vorremmo oggi – in obbedienza ad una tradizione ormai consolidata – guardare alla nostra città e ancor più ampiamente al territorio della nostra diocesi. La passione per la vita e il desiderio di verità ci spingono a interrogarci su ciò che sentiamo particolarmente urgente come comunità che vive oggi sul territorio bresciano.

Pensando al momento che stiamo attraversando, papa Francesco ha più volte ripetuto che “non siamo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca”. Il santo Padre ha poi precisato il suo pensiero in una lettera enciclica di grande respiro, che ha intitolato Laudato si’. Nella sua essenza, questa lettera altro non è se non un appello a considerare la realtà sociale nella quale ci troviamo e a raccoglierne la sfida. Su questo vorrei anch’io soffermarmi in questa mia riflessione. C’è un dovere che siamo chiamati ad assumere, un compito urgente, una responsabilità di cui farsi carico senza indugi. La sfida è davvero epocale. L’obiettivo è una vera e propria trasformazione del quadro sociale, una metamorfosi radicale del modo di vivere. Occorre passare al più presto ad una nuova visione dello sviluppo che sia sostenibile e occorre dare a questa sostenibilità una connotazione etica. In altre parole, è indispensabile cominciare a parlare chiaramente di etica della sostenibilità.

Lanciando uno sguardo generale sul nostro mondo ormai globalizzato, tre fenomeni si segnalano come particolarmente gravi e capaci di farci cogliere la necessità e l’urgenza di un cambiamento. Il primo è un fenomeno non certo nuovo, un fenomeno endemico e paradossale, a cui rischiamo purtroppo di abituarci e che invece deve scuotere profondamente le nostre coscienza: 800 milioni di persone sul nostro pianeta vivono nell’indigenza, al limite della sopravvivenza, nella miseria e addirittura nella fame; per contro, nel nostro mondo si producono oggi beni di consumo per una popolazione doppia rispetto all’attuale, al punto che quasi un terzo di quanto si produce, essendo in eccesso, deve essere scartato e distrutto. Un secondo fenomeno rilevante, questa volta tipico del momento attuale, è quello dei cambiamenti climatici, conseguenza allarmante di un uso sconsiderato delle risorse energetiche e di un sistema produttivo fuori controllo. Il terzo fenomeno, anch’esso tipicamente attuale, è lo squilibrio mondiale riguardante la natalità, con paesi come il nostro nei quali il numero delle nascite si è drammaticamente ridotto: si tratta di un fenomeno che ci deve seriamente interrogare sul versante della concezione della vita e che è destinato ad avere come conseguenza un riequilibrio della distribuzione della popolazione a livello mondiale, attraverso il fenomeno correlato dei flussi migratori.

Non è possibile rimanere tranquillamente inerti di fronte a questi gravi segnali. Urge ripensare e rifondare l’idea di sviluppo come idea guida della nostra società, immaginandola in stretta relazione con un cammino che consenta alla stessa società di realizzare un autentico progresso. Nell’enciclica Populorum Progressio, testo di straordinaria potenza e profezia, Paolo VI aveva parlato con grande lucidità e appassionato trasporto lucidità del valore dello sviluppo in ordine ad un’autentica convivenza tra i popoli. “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace” – aveva dichiarato san Paolo VI, immaginandolo come destinato a tutti e in grado di garantire sicurezza e prosperità. La convinzione soggiacente era che un simile sviluppo fosse di per sé possibile e che il significato del termine fosse tranquillamente condiviso: l’attenzione era piuttosto concentrata suoi destinatari e sul loro diritto a beneficiarne. L’attuale situazione ci obbliga a ricalibrare il pensiero e a fissare l’attenzione sul senso stesso del termine sviluppo, cioè sulla sua essenza e nella sua modalità di attuazione. È quanto ha fatto papa Francesco con l’la lettera enciclica Laudato si’. Sta diventando sempre più chiaro a tutti che oggi occorre affiancare al termine sviluppo l’aggettivo sostenibile. La sostenibilità si presenta oggi come una vera e propria chiave interpretativa dello sviluppo e come sua condizione di attuabilità: lo sviluppo o sarà sostenibile o non sarà.

Ma cosa significa precisamente che lo sviluppo deve essere sostenibile? Significa anzitutto che la vita di tutti deve essere in grado di reggerlo, che cioè questa non deve essere compromessa dallo sviluppo, né dal punto di vista ambientale, né dal punto di vista sociale. Ma sostenibile significa anche, e soprattutto, che lo sviluppo deve risultare “degno di essere sostenuto”, deve cioè meritarsi la nostra fiducia. La forma che intendiamo dare allo sviluppo deve cioè presentarsi, nella sua proposta complessiva, come meritevole del nostro apprezzamento, di modo che ognuno possa dire in coscienza: “Sì, questa idea di sviluppo mi sento in coscienza di sostenerla!”. Deve essere, in altre parole, in linea con il desiderio di vita che anima il cuore di ogni uomo e – in una prospettiva di fede – con il progetto che Dio ha da sempre sull’intera umanità. Potremmo dire, in sintesi che questo sviluppo deve essere etico.

La domanda che meglio consente di mettere a fuoco la questione cruciale con cui finalmente ci si dovrà decidere è quella riguardante la qualità della vita. Potremmo dire, infatti, che questo è l’obiettivo di ogni vero sviluppo e del progresso in generale. Ma, appunto, cosa intendiamo per qualità della vita? Quando cioè si può dire di un paese che il suo livello di vita è qualitativamente alto? Ascoltando le nostre televisioni e leggendo i nostri giornali, ma anche sentendo le conversazioni che rimbalzano sui social, si ricava senza fatica l’impressione che a determinare il valore del nostro vissuto siano in questo momento la crescita o la riduzione dei consumi e prima ancora l’aumento o la contrazione della produzione. Quando i consumi calano e la produzione rallenta, scatta l’allarme, sale l’ansia sociale, ci si convince che è a rischio il proprio benessere e si finisce nella fasce basse della classifica dei paesi più evoluti. Il principio è chiaro: si vive bene là dove il potere di acquisto è più alto, dove la varietà dei prodotti è maggiore e la tecnologia è più evoluta. In questo mondo dominato dai prodotti regna sovrana la pubblicità: essa riempie ogni spazio fisico e mediatico e detta le sue regole ferree, che rispondono al principio chiaro del vendere il più possibile, senza troppi riguardi per sentimenti o ambienti, suscitando anche bisogni fino a ieri inimmaginabili. I luoghi dove i prodotti vengono commercializzati diventano le nuove piazze, gli ambienti dove aggregarsi senza necessariamente conoscersi, nell’illusione di sentirsi qualcuno e di riposarsi, mentre si è costantemente raggiunti da messaggi che lasciano chiaramente intendere qual è la verità: non abbiamo un volto ma siamo semplicemente clienti e consumatori.

Per anni abbiamo camminato in questa direzione, ci siamo lasciati ispirare da queste convinzioni. Ci rendiamo ora conto che il clima ingenerato nella società da questo modo di vivere appare pesantemente segnato da due gravi conseguenze: la prima è il cambiamento in atto a livello ambientale, una sorta di contaminazione del nostro pianeta a causa di un sistema produttivo che ha comportato saccheggio delle risorse, invasione degli ecosistemi ad opera degli scarti e dei rifiuti, compromissione degli equilibri climatici a causa delle emissioni. Il secondo campanello d’allarme, ancora più drammatico, viene dal contesto sociale ed ha la forma di un incremento preoccupante del tasso di aggressività, particolarmente evidente nei cosiddetti social. Non una guerra vera e propria ma una violenza feroce, che trova nella comunicazione la sua via di espressione più ricorrente: insulti, offese, volgarità, razzismo, sessismo, incitamento all’odio, alla giustizia sommaria e addirittura al crimine.

Cominciano forse ora a renderci conto che stiamo percorrendo una strada sbagliata, che un mondo così impostato ha un colore poco simpatico, tendente al grigio, e che è striato da ombre sinistre. Nella Laudato si’, papa Francesco di segnala, con grande lucidità, che dietro tutto questo sta di fatto un paradigma, cioè un principio che silenziosamente ispira tutto l’agire sociale. Senza che ne siamo più di tanto accorti, abbiamo creato un vero e proprio sistema, basato su una convinzione fondamentale, che cioè la vita dell’intera umanità è guidata dall’economia e che questa debba necessariamente rispondere alla logica esclusiva del profitto. A questa convinzione se ne affianca una seconda: che la tecnologia, governata esclusivamente dalla scienza, costituisce il vero nuovo potere, su cui contare per governare i processi del vivere sociale, in stretta connessione con l’obiettivo del profitto che si prefigge l’economia.

Provando a guardare ancora più in profondità, ci si rende conto che un simile paradigma tecno-economico presuppone una visione dell’uomo e del mondo, cioè un’antropologia, le cui caratteristiche cominciano ora ad essere a loro volta molto più chiare. Si tratta di una visione della realtà che non viene ufficialmente teorizzata ma che in realtà indirizza l’agire di tutti. Essa ruota intono a due parole chiavi, che sono la soggettività e la libertà. Fu il Cristianesimo stesso a far maturare nel corso dei secoli la consapevolezza del valore di queste due dimensioni del vivere umano. Ma ora, all’apice di un impressionante processo di contaminazione della verità, si è arrivati ad una visione dell’uomo come soggettività assoluta, cioè senza legami, e come libertà assoluta, cioè senza limiti, entro una prospettiva puramente orizzontale. In modo quasi silenzioso si è progressivamente estinta la dimensione verticale, cioè la trascendenza e l’interiorità della soggettività personale: alla trascendenza si è sostituito il senso di onnipotenza della tecnica, con la sua perenne innovazione; all’eccedenza della persona umana, cioè alla misteriosa profondità del soggetto, si è sostituto l’eccesso del consumo, fomentato dalla logica del profitto. Ne sono derivati una impressionante superficialità nel modo di vivere e l’incapacità di sostenere l’esperienza del limite e della fragilità. L’incertezza, la paura, la precarietà delle relazioni e il senso di estraneità di fatto creano l’atmosfera del nostro vivere sociale, che non appare contraddistinto – purtroppo – da una grande serenità.

Occorre invertire decisamente la rotta e rifare il percorso a ritroso, muovendo in direzione opposta. Occorre cioè partire da un radicale ripensamento della visione dell’uomo e del mondo, che recuperi tutte le dimensioni proprie dell’essere umano, in particolare la dimensione verticale. Senza la dimensione verticale anche la dimensione orizzontale perde la sua consistenza. La soggettività e la libertà dell’uomo hanno infatti bisogno dell’altezza e della profondità che vengono dall’incontro con il mistero santo di Dio e rivelano l’alta dignità dell’uomo e del suo ambiente. Scrive papa Francesco nella Laudato si’: “La crisi ecologica è un emergere o una manifestazione esterna della crisi etica, culturale e spirituale della modernità: non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali (cfr. LS, 119).

In una simile ritrovata unità della concezione dell’uomo, alla negazione del limite si sostituirà il sereno riconoscimento della finitezza e il dovere morale della solidarietà. Il mistero del trascendente riprenderà il posto usurpato dal mito dell’onnipotenza tecnologica. Il consumismo compulsivo, con il suo inevitabile eccesso, cederà il posto alla dimensione etica della soggettività umana, chiaramente percepita nella sua eccedenza di profondità e di valore. Da qui uno stile di vita più sobrio e sereno, più limitato e oculato nella produzione, più rispettoso del creato e più attento ai bisogni di tutti.

Dalla rinnovata visione dell’uomo e del mondo deriverà contemporaneamente una nuova concezione della qualità della vita. Quest’ultima non verterà tanto sul livello dei consumi e della innovazione tecnologica ma piuttosto sulla rilevanza dei sentimenti e delle relazioni. Dovremo cominciare a valutare il tasso di progresso di una società dal clima di fiducia che vi si respira, dalla gioia di vivere che vi si percepisce, dalla capacità di sorridere e di accogliersi, dalla normale pratica dell’onestà, dalla sincerità e lealtà nei rapporti, dalla presa in carico generosa di coloro che sono più fragili, dall’offerta di un’esperienza della sicurezza che sia difesa esterna ma anche pace interiore, dalla lotta contro ogni forma di povertà, dall’impegno reale a integrare culture differenti, dall’attenzione educativa per le nuove generazioni, dal sostegno offerto alle famiglie, dalla promozione del dialogo intergenerazionale, dal rispetto per l’ambiente, dalla promozione della cultura a tutti i livelli e dall’esercizio della politica come servizio alla comunità civile.

Un nuovo paradigma andrà a sostituirsi a quello che attualmente sta esercitando il suo influsso problematico: un paradigma non più tecno-economico ma spirituale-contemplativo, capace di riconosce l’uomo come aperto alla dimensione celeste e ricco di una interiore profondità. Il segno chiaro di questa radicale metamorfosi sarà la riscoperta della dimensione etica del vivere, vale a dire il riconoscimento della rilevanza decisiva del bene in ordine al vivere sociale: bene della persona e bene comune. In realtà, l’urgenza di una proposta convincente di sviluppo sostenibile rappresenta la punta di un iceberg, che rinvia a qualcosa di molto più profondo e cioè alla necessità di una rivoluzione etica, che consenta al bene inteso nel suo significato più ampio e più concreto di riprendersi il primo posto nella scala dei valori. Quel bene che porta con sé le virtù, troppo spesso dimenticate, che chiama in causa la coscienza e che riconosce la sua sorgente nel sommo bene, mistero di amabile santità che abita i cieli.

Scrive papa Francesco nella Laudato si’: “Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente” (LS 229).

Sul versante pratico, cioè in vista dell’attuazione concreta del bene comune, sarà decisivo avviare un circolo virtuoso tra economia, tecnica e politica. Conferendo alla economia e alla tecnologia il loro giusto valore, si dovrà operare in modo da coniugare il profitto con l’impegno sociale e ambientale, consenso di responsabilità. Quanto alla tecnologia, un principio pensiamo dovrebbe ispirare il modo di operare: non realizzare non tutto ciò che la tecnica rende possibile, ma rendere possibile quello che si ritiene utile realizzare per il bene di tutti.

Sarà benvenuta ogni proposta di economia circolare e ancora meglio civile, ogni green economy e ogni green technology che andranno tuttavia inquadrate nell’orizzonte più ampio della ethical economy and thecnology. È confortante constatare che si comincia finalmente a parlare di Responsabilità Sociale d’Impresa, di solidarietà intergenerazionale, di processi solidali e buone pratiche individuali attuate in contesti collettivi, di coinvolgimento dei cittadini e di mobilitazione delle persone per il benessere delle comunità, di co-progettazione tra profit e no-profit la cui finalità è la realizzazione di iniziative di valore sociale.

È ormai chiaro che non si tratta più semplicemente di riscoprire l’importanza dell’ecologia e del rispetto dell’ambiente ma di instaurare un nuovo modello di vita, nel quale il sovrano non sia il profitto ad ogni costo ma il bene di tutti. Si prospettano così un nuovo stile di vita personale e una nuova progettualità politica, da cui dipenderà anche un nuovo clima sociale. Nell’ottica cristiana, ci piace parlare di uno stile di vita profetico e contemplativo, capace – come scrive papa Francesco - di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo”(LS, 222).

Si delinea così quella civiltà dell’amore che tanto stava a cuore a san Paolo VI, a costruire la quale deve concorre quella che abbiamo voluto chiamare l’etica della sostenibilità. La nostra realtà locale, cui Paolo VI appartiene nelle sue origini, presenta caratteristiche particolarmente promettenti in vista di questa grande opera di rinnovamento sociale. Unendo le forze e prima ancora il pensiero sarà possibile sul nostro territorio bresciano dare forma progettuale ad una istanza che ormai appare sempre più condivisa.

I nostri santi patroni, difensori e amanti della vita, ispirino e sostengano quest’azione comune che potrebbe utilmente aprire nuove strade a beneficio dell’intera società.


+ PIERANTONIO TREMOLADA 15 feb 2020 12:00