lock forward back pause icon-master-sprites-04 volume grid-view list-view fb whatsapp tw gplus yt left right up down cloud sun
Brescia
di GIACOMO CANOBBIO 01 giu 2015 00:00

Corpus Hominis fa vivere la comunità. Canobbio: "Mai senza l'altro"

Inizia a Brescia il 31 maggio il Festival della Comunità. Mons Giacomo Canobbio introduce il senso del percorso che coinvolgerà la città per 6 giorni con 40 eventi. "Nella cultura attuale - dice Canobbio - la dimensione individuale appare rimarcata a scapito di ciò che è comune. L’esito è una maggior fragilità delle persone, che reclamano sempre più di essere sorrette".

Alcuni decenni orsono aveva richiamato l’attenzione anche dei lettori italiani un’opera del gesuita francese Michel de Certeau che portava il titolo Mai senza l’altro. Con una scrittura originale appresa dai mistici del ‘600 si mostrava come non sia possibile immaginare una vita personale senza l’alterità: ogni persona umana è inserita in un reticolo di relazioni che contribuisce pure a costruire, sicché non c’è individuo senza un dono che si riceve in una comunità i cui confini si dilatano all’infinito. Si potrebbe dire che la comunità è il grembo di ogni persona, ma è pure il suo compito.

Per comprenderlo si può fare appello all’etimologia del termine: comunità viene da cum-munus, cioè dono, compito, condivisi; comunità richiama ciò che è comune, non proprio, il luogo in cui il proprium finisce; indica l’insieme di persone unite da un dovere, da un debito; rimanda quindi a una responsabilità collettiva. È però possibile, secondo alcuni, vedere anche altra spiegazione: comunità viene da cum-munio, che richiama la protezione: comunità è il luogo nel quale si è protetti insieme da moenia (mura).

L’etimologia serve, ma non dice tutto: al principio stanno le cose, non i nomi. Se per indicare un’esperienza si usa un nome è perché si vede una corrispondenza tra i due. Si dà il nome “comunità” a un gruppo che condivide qualcosa. Coerentemente ciò che viene in primo piano non è più il singolo, bensì la collettività. La matrice della condivisione non può essere però la natura astrattamente intesa: si dà comunità dove la condivisione comporta una consapevolezza e una scelta: consapevolezza di aver ricevuto qualcosa insieme e quindi una responsabilità comune. Da qui la dimensione organizzativa, che serve anche a ‘difendere’ l’insieme. Comporta altresì la volontà di condividere, e quindi regole, le quali servono a difendere la comunità dalla dispersione e dal prevalere di qualcuno sugli altri.

Nel corso della storia del pensiero per dire la comunità si è fatto uso anche della metafora ‘corpo’. Questa è entrata nella cultura occidentale grazie alla riflessione degli stoici, che vedeva un elemento comune alla base di tutto ciò che esiste. L’immagine serve a descrivere i necessari rapporti tra i gruppi sociali o le singole persone. Memorabile è l’apologo di Menenio Agrippa, nel quale si narra l’uso di questa metafora da parte di questo personaggio per convincere i plebei di Roma a tornare al servizio dei patrizi perché gli uni avevano bisogno degli altri. La metafora è stata assunta anche da San Paolo (1Cor 12; Rm 12; Ef 4) per dire che la comunità cristiana è come un corpo nel quale i doni dei singoli vengono dalla medesima fonte e quindi devono essere messi a disposizione per il bene dell’organismo intero, che è la visibilizzazione del Signore risorto.

La comunità non è pertanto solo il luogo generativo della persona: è la condizione permanente del suo esistere. Essa può apparire costrittiva, ma è indispensabile per salvaguardare soprattutto i più deboli. La percezione di costrizione sorge dall’aspirazione in ogni persona all’affermazione della propria individualità. Si evidenzia così una tensione tra originalità e condivisione. Nella cultura attuale la dimensione individuale appare rimarcata a scapito di ciò che è comune. L’esito è una maggior fragilità delle persone, che reclamano sempre più di essere sorrette. Si è creato pertanto un circolo vizioso: l’affermazione delle individualità ha reso queste più deboli. Il circolo si rompe se si tiene presente che la comunità è luogo della corresponsabilità: quel che si riceve non è per sé, ma per il tutto. Questo può essere la famiglia, un gruppo, la nazione, la Chiesa, l’umanità.

Corresponsabilità comporta il senso di appartenenza fondato su un dono prima che su una scelta. La difficile comprensione di questa priorità nasce dall’idea che tutto ha senso se è scelto, dimenticando che la scelta suppone sempre delle condizioni previe: legami di sangue e affettivi, valori, territorio, lingua, storia, fede. In tal senso la comunità precede la persona. Ma questa si realizza nella misura in cui pone se stessa a servizio della comunità: in quanto ne è espressione originale, ha il compito di farla crescere condividendo quel che ha ricevuto grazie alla comunità stessa.

Crescita della persona e crescita della comunità vanno perciò di pari passo. Da qui deriva il senso del ‘bene comune’, da intendere come bene del tutto. Ciò suppone però una concezione solidale e non utilitaristica della propria appartenenza a una comunità sia essa civile o ecclesiale. “Mai senza l’altro” diventa espressione descrittiva della condizione umana, ma pure richiamo a un dovere che sgorga dalla consapevolezza grata della propria origine.
GIACOMO CANOBBIO 01 giu 2015 00:00