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Brescia
di ROMANO GUATTA CALDINI 17 apr 2016 00:00

Hemingway, l'uomo oltre la leggenda

Il viaggio esistenziale dello scrittore di Oak Park è stato il tema della seconda serata del Mese letterario organizzata dalla Fondazione San Benedetto

Ci sono uomini che portano in giro, ovunque vadano, le cicatrici scolpite nei loro corpi e nelle loro anime da un'esistenza ai limiti. Talvolta ci sono ferite che si riaprono, tornano a sanguinare, segnando indelebilmente il destino di queste persone. Fra i tanti “maudits” della letteratura, chi ha avuto la forza e il vigore necessari per sopportare il peso di un'esistenza che ha brutalmente lasciato il segno, sulla pelle come nelle profondità dell'anima, c'e' senza ombra di dubbio Ernest Hemingway. Il giovane volontario della croce rossa fra le “tempeste d'acciaio” del primo conflitto mondiale, lo scrittore della lost generation nella Parigi anni Venti, il boxeur, l'amante della corrida, il pescatore di marlyn a largo di Cuba, il seduttore, il bevitore incallito: sono tante le etichette che nel tempo sono state affibiate al romanziere di Oak Park, eppure Hemingway è stato molto altro. I tratti meno conosciuti dell'autore di "Addio alle armi" sono stati delineati da Silvia Ballabio, docente di lingua e letteratura inglese, durante la seconda serata del Mese letterario tenutasi giovedì 14 aprile all'auditorium Balestrieri. “Ernest Hemingway, the exhaustive traveller”, è stato il tema che ha caratterizzato l'appuntamento della rassegna organizzata dalla Fondazione San Benedetto.

“Hemingway è l'eroe – ha esordito la relatrice -, è l'uomo che si offre volontario nella prima guerra mondiale, viene preso tra le fila dell'American Red Cross, sul fronte del Piave”. E' in questo frangente che una bomba deflagra vicino a lui ferendolo gravemente a una gamba, nonostante ciò si carica sulle spalle i compagni feriti, a disprezzo del pericolo, guadagnandosi la medaglia al valore”. Non sarà la prima né l'ultima ferita. Nel 1930 ha un incidente automobilistico, si frattura il braccio destro in più punti. I suoi viaggi nel mondo e la vita irrequieta gli procurano, in sequenza: un dolore intenso ai reni causato dalla pesca nelle acque spagnole, uno strappo inguinale durante una visita a Palencia, un'infezione da antrace, un dito lacerato fino all'osso in un “incidente” con un sacco da pugilato, e una ferita al bulbo oculare, graffi profondi a braccia, gambe e faccia prodotti da spine e rami mentre attraversa un bosco del Wyoming in sella a un cavallo imbizzarrito. E la lista potrebbe continuare.

Virilità e dinamismo sono stati, da sempre, i termini più utilizzati dalla critica per costruire il mito di Hemingway. E' esistito, però, un altro Hemingway...che per rispondere ai colpi della vita “aveva fatto della scrittura un'esperienza salvifica”, come ha sottolineato Silvia Ballabio. Hemingway - ossessionato dalla morte - affrontava la scrittura in modo simil-monacale, era un uomo che paragonava il suo stile ai paesaggi di Cezanne e alle arie di Bach, “stiamo parlando di una persona molto più ricca rispetto al mito che ci hanno consegnato”.

Critici e biografi hanno fatto risalire al trauma della prima guerra mondiale la nascita del tarlo che, insinuatosi nella mente del 18enne Hemingaway, continuerà a scavare fino a portarlo al suicidio all'età di 62 anni. Una tesi non sposata da Silvia Ballabio. Per Hemingway - è la tesi della relatrice - la vita non era altro che lo spazio di tempo che intercoreva fra la stesura di un testo e un'altra, persa la capacità di scrivere, la vita non avrebbe più avuto senso. Infatti, dopo due incidenti aerei, fra il 1953 e il 1954, attraversando i cieli dell'Africa, qualcosa s'incrina, e non si tratta solo delle ossa del romanziere.

“Questi traumi per Hemingway sono stati devastanti. Fernando Pivano, in lacrime durante un'intervista, disse che lui iniziò a morire proprio lì”, riferendosi ai 24 elettroschok, subiti dallo scrittore, a cui si era sottoposto per curare la depressione sopraggiunta dopo i fatti africani. Il trattamento gli provoca danni irreversibili: “Era saltato qualcosa – ha sottolineato Silvia Ballabio –, la memoria a lungo termine, non ricordava più niente. Alle crisi depressive si aggiunsero le allucinazioni”. Hemingway non riusciva più a scrivere. Il risultato? “Un colpo di fucile alla tempia”.

Per comprendere lo stato in cui si trovava lo scrittore Silvia Ballabio ha evidenziato il testo preparato dallo scrittore in occasione dell'accettazione del Nobel per “Il vecchio e il mare” ricevuto nel 1954, premio che per evidenti ragioni fisiche e mentali non potè ritirare. “Scrivere al meglio, è una vita solitaria. Le organizzazioni per gli scrittori mitigano la solitudine dello scrittore ma dubito che ne migliorino la scrittura. Aumenta in statura pubblica man mano che si toglie di dosso la solitudine e spesso la sua opera, il suo lavoro, si deteriora. Poiché se fa il suo lavoro da solo e se è uno scrittore abbastanza bravo deve affrontare l'eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”.






ROMANO GUATTA CALDINI 17 apr 2016 00:00