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Italia
di ALESSANDRO DI MEDIO 09 dic 2021 12:00

Zerocalcare: la risposta che (giustamente) non c'è

Quando a uno dei gruppi dei giovani che guido settimanalmente, ho chiesto se conoscessero Zerocalcare, vedere quaranta teste ventenni fare un cenno di assenso mi ha convinto che una parolina su di lui valesse la pena spenderla. Iniziamo da un prodotto nostrano, e cioè dalla serie Netflix del fumettista romano Michele Rech, in arte “Zerocalcare”, intitolata Strappare lungo i bordi.

Va detto che, rispetto al fumetto scritto, l’audio del cartone trasmette un certo senso di oppressione: la voce del protagonista, incalzante, rapida, smozzicata, che corre corre corre nel tentativo di sincronia con immagini e situazioni trasmette bene il clima interno di ossessioni che lo abitano. Emerge in modo più caustico la cruda asprezza di persone e situazioni, l’inevitabile scurrilità, fino a qualche malcelata (e ben poco censurata) bestemmia. Il linguaggio cartaceo, fatto di simboli, si trasforma qui in una cacofonia ipnotica, che inevitabilmente porta lo spettatore a immedesimarsi con l’ansia del protagonista e a prestare orecchio alla voce, pacata e in qualche modo cullante, dell’Armadillo. Già, l’Armadillo. Qui l’audio aiuta a svelarne la natura, perché la sua voce, più solida perché acustica, ne smaschera l’indole. Ecco l’origine del solipsismo zerocalcariano, delle sue tristezze e delle sue paranoie arrese: molto semplicemente, alla base di tutto questo buio c’è un equivoco, per il quale il nostro chiama “coscienza” quello che un minimo di spiritualità cosciente saprebbe riconoscere come nient’altro che il tentatore in persona. Questa voce che abbatte, che rimorde, che scoraggia, che insinua, che ricorda il male, che ridimensiona il bene; che assale, che non dà tregua (se non apparente, come alla fine dell’episodio finale della serie), che ridicolizza, che uccide i sogni sul nascere; questo sussurro che induce a non giocarsi, se non per approfittarsene, a non esporsi… non è altro che la voce dell’Avversario, della fase “accusatoria” della tentazione, che segue sempre, come conto amaro, le illusioni adulatorie della fase precedente, più ingannevole. Una tentazione astuta e pervasiva, orizzonte della ferialità del nostro protagonista piena di complessi, un “diavoletto” che si traveste da sobrio realismo, che però, chissà come mai, non sa vedere nel concreto se non quello che non c’è, e non è capace di costruttività o speranza. Zerocalcare (e qui mi riferisco, sia chiaro, al personaggio protagonista, non all’autore in carne e ossa, che non è dato ai più di conoscere) fa l’amore con i suoi pensieri neri, li sposa, li ascolta, se ne fa consigliare, ci gioca insieme… e il risultato è un graduale, inevitabile deperimento della vita, fino alla morte, rappresentata dall’apparentemente enigmatico suicidio della sua amica Alice.

Cosa salva Zerocalcare dal gorgo tenebroso che ha inghiottito la sua amica? Lì per lì parrebbe un po’ di saggezza spicciola e poco approfondita, veicolata dall’altra amica, Sarah, la cui tesi di fondo si potrebbe sintetizzare in “siamo irrilevanti, quindi rilassati”. A dire il vero, questo approccio sarebbe anche funzionale a sgonfiare i pensieri ossessivi della tentazione e del senso di colpa: è vero, occorre imparare a marginalizzare i propri pensieri e a lasciare a Dio il posto di Dio. Ma, a Zerocalcare, questo non basta: è troppo sincero, troppo intenso, anche se forse non lo sa. Lui ammette che il cerchio non si chiude, e che non ha le risposte: “E certe volte quel fuoco ti basta… e altre volte no”. Non basta dirsi che basta. Zerocalcare è triste, ma non è cinico; è ironico, ma non è sarcastico. Sa di non avere la chiave per decifrare il mistero della vita, e lo lascia in sospeso, alternando nell’ultima parte dell’ultimo episodio frasi che sembrano concludere, a riaperture improvvise e malinconiche, dubbiose. Questo dubbio lascia in sospeso la vita, ma permette anche sprazzi di liberante umiltà, come quella che lo induce a gettare via le aspettative dell’io ideale supereroico (i “bordi”) per essere quello che è: incompiuto.

Penso che questa sia la cosa più preziosa che un cristiano può recepire dall’opera di Zerocalcare, al di là dello spasso e dei revival (per la mia generazione di bamboccioni, almeno): che l’uomo, senza Cristo, semplicemente non ha risposte ed è incompleto, e non ha difese convincenti contro l’apparente ragionevolezza della disperazione (l’Armadillo). Spiego meglio rifacendomi a un aneddoto personale. Nella mia biblioteca vanto una copia di “Dimentica il mio nome” che reca una caricatura fattami dal Nostro, il quale rimase sorpreso nel sapere, dal ragazzo della mia parrocchia che gli porgeva il volume da autografare, che io quel suo testo lo usavo in un certo momento del percorso spirituale che propongo ai giovani. Non riusciva a capire cosa potesse entrarci la sua opera con una cosa “di Chiesa”. Il fatto è che la grandezza pop di Zerocalcare sta proprio in questo: che egli sa descrivere benissimo le ferite e le tenebre dell’animo umano dal di dentro, e dunque diventa preziosamente esemplificativo. Ad altri, cioè a noi “figli della luce e del giorno”, spetta il compito di metterci il pezzo che manca, vivendo anzitutto, e poi magari offrendo ai nostri fratelli, la chiave di decifrazione del mistero del male di ogni uomo, la luminosa Croce vivificante di Cristo morto e risorto, che rende ragione al contempo di tutti gli abissi di Dio e dell’uomo. Un esempio di questo “completamento” che possiamo portare noi cristiani: è vero, siamo fili d’erba, ma la cosa stupefacente è che ciascuno di questi fili d’erba è stato voluto, guardato, amato. Questa è la vertiginosa reale dimensione dell’amore di Dio per noi, senza confini e senza bordi.

ALESSANDRO DI MEDIO 09 dic 2021 12:00