lock forward back pause icon-master-sprites-04 volume grid-view list-view fb whatsapp tw gplus yt left right up down cloud sun
Brescia
di R. GUATTA CALDINI 21 nov 2015 00:00

Quel percorso fra libertà e giustizia alla riscoperta del benessere comune

Si è tenuto venerdì 20 novembre nell'Aula magna dell'Università Cattolica l'ultimo appuntamento degli "Incontri d'autunno" della Fondazione San Benedetto. Fra gli ospiti, Luciano Violante

“C'è un punto che ha richiamato Carrón subito dopo i fatti di Parigi: il senso della vita. In questa fase la vita può essere interrotta per cause assolutamente fuori dagli schemi della ragione. Siamo pronti a questo? Da questo elemento tragico possiamo trarre un dato personale, soggettivo, o saremo spettatori di cose che faranno e decideranno altri?”. E' con questi interrogativi che il presidente emerito della Camera dei deputati Luciano Violante ha concluso il suo intervento, venerdì sera nell'Aula magna della Cattolica di Brescia, durante l'ultimo appuntamento degli “Incontri d'autunno”, la rassegna dedicata all'attualità organizzata dalla Fondazione San Benedetto. “Gli uomini hanno paura sostanzialmente di una cosa sola – di essere liberi –. La libertà sgomenta, perché – quando è vissuta fino in fondo – è un abisso che fa venire le vertigini”, ha sottolineato l'avvocato Dario Meini, moderatore della serata, citando Pietro Barcellona. Un abisso tanto più insondabile dopo gli attentati che hanno sconvolto la Francia mettendo in risalto – a un occhio smaliziato – lo “strano oscuramento del pensiero” denunciato da Benedetto XVI, un travisamento che è stato al centro della rassegna autunnale.

Parlare di giustizia e di libertà è doveroso. Soprattutto se si considera l'attuale stato in cui versa l'Italia, un Paese dove “la politica è soggetto regolatore e materia regolabile” ha sottolineato Violante individuando la natura conflittuale del rapporto fra classe politica e giustizia, fra potere e libertà. Una dimensione che ha dato vita a una società parallela a quella civile e politica, la "società giudiziaria". E' in tale contesto che si collocano gli avvisi di garanzia, protagonisti di un “intreccio assai pericoloso fra giustizia e mezzi di comunicazione”, “tra informazione e alcuni settori della magistratura”. Libertà, reputazione e processi mediatici: “In una società democratica la reputazione – ha continuato il Presidente – è un valore persino superiore a quello della libertà, perché riguarda la capacità (del soggetto colpito ndr) di essere creduto”. L'altra singolarità che vede informazione e magistratura andare di pari passo è “la creazione - tramite i mezzi di comunicazione e l'autorità giudiziaria - di una nuova categoria processuale, quella del 'coinvolto'”. E ancora. L'Italia è “l'unico Paese in cui due magistrati, Di Pietro e Ingroia, hanno costituito due partiti politici, anche se non hanno avuto particolare successo...”. A tutto questo l'ex capogruppo dei Ds alla Camera ha aggiunto le lungaggini giudiziarie - che hanno portato a 5 milioni il numero dei processi civili all'anno -, le assoluzioni che non fanno notizia e la relativa damnatio memoriae.

Di fronte a un simile panorama è lecito chiedersi quale sia la soluzione per sbrogliare la matassa venutasi a creare, in modo da trovare le coordinate che indichino “La libertà e la giustizia per il benessere del popolo”, tema che ha caratterizzato la serata. Una soluzione può essere trovata scoprendo la natura del popolo. Ne è convinto Marco Cangiotti - ordinario di Filosofia politica all'Università di Urbino - che negli scritti di Sant'Agostino ha individuato una prima risposta per disvelare lo “strano oscuramento del pensiero” indicato da Ratzinger. “Il popolo - scriveva Sant'Agostino - è l'insieme degli esseri associato nella concorde comunione delle cose che ha”. Da una comune concezione della vita, secondo Cangiotti, trae origine la cultura di un popolo, in ultima analisi, “la scelta dei motivi per cui vale la pena vivere”. Si tratta di valori strettamente connessi alla vita quotidiana: sono “le fonti della propria identità, valori che si incarnano”. Ci sono molte identità e molte culture, ma non sempre il panorama è chiaro, non sempre la giustizia risponde al compito a cui è chiamata. In un mondo dove la giustizia è “una tecnica sociale” calata dall'alto, “una ragnatela procedurale di tipo amministrativo e penale” che ha come fine il conseguimento di “comportamenti socialmente virtuosi ottenuti a prescindere dalla coscienza degli individui” - si viene a creare quella condizione che Eliot definiva “il diritto chiamato a costruire un mondo tanto perfetto da rendere superfluo l'essere buoni da parte degli uomini”.

L'altro elemento che contraddistingue la concezione della giustizia in occidente riguarda “la sfera dei desideri dei singoli soggetti, una sfera giuridicamente rilevante e protetta”; da qui l'incessante fioritura dei nuovi diritti che la società deve riconoscere: vedasi, per esempio, il capitolo sul matrimonio fra persone dello stesso sesso. E' quindi in atto “una personalizzazione della giustizia che si identifica con la sfera privata”, un processo che “esclude l'altro”.

Come rimettere in sesto l'ethos del popolo? Innanzitutto riscoprendo il legame fra giustizia e ragione, così rispondendo all'attuale concezione che vede la giustizia strettamente connessa al sentimento. Di questo ha parlato don Stefano Alberto, sacerdote della Fraternità dei missionari di San Carlo Borromeo e docente di Teologia all' Università Cattolica del S. Cuore di Milano. La giustizia – è il quesito posto – è qualcosa di insito nell'uomo, è parte integrante dei suoi valori originari, o è dipendente dal volere di potentati e potenti? Per scoprirlo bisogna intraprendere “un cammino, un percorso, un'esperienza” che porti l'uomo a rendersi cosciente di come la giustizia sia “un'esigenza strutturale che ha a che fare con l'uso dell'umanità dei singoli, con la ragione e la libertà”. Se questo percorso non dovesse essere intrapreso “potremmo intravedere le conseguenze che Michel Houellebecq, senza tanti giri di parole, ha preconizzato nel suo libro 'Soumission': arriveremo a un punto in cui della nostra libertà non sapremo che farcene, saremo pronti a sottometterci”.
R. GUATTA CALDINI 21 nov 2015 00:00