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Roma
di PAOLO MOROCUTTI 04 dic 2025 05:39

Cyberbullismo e salute mentale dei giovani

Perché il cyberbullismo è più pericoloso del bullismo tradizionale e quali strategie di prevenzione risultano più efficaci?

Per comprendere la gravità del cyberbullismo, dobbiamo immaginarlo non come una semplice evoluzione tecnologica del bullismo “da cortile”, ma come una trasformazione radicale della violenza relazionale. La psicologia clinica ci spiega che la sua pericolosità superiore risiede innanzitutto nell’assenza di un “porto sicuro”. Se un tempo il ragazzo bullizzato, rientrando a casa, poteva chiudere la porta e trovare sollievo tra le mura domestiche, oggi la persecuzione non conosce orari. Lo smartphone in tasca vibra di notte, durante le vacanze, nei momenti di intimità familiare. Questa invasività totale genera nel ragazzo uno stato di allerta perenne (tecnicamente definito ipervigilanza), che impedisce al sistema nervoso di rilassarsi. È come vivere in una casa con le pareti di vetro: non c’è mai tregua, e questo porta rapidamente a un esaurimento emotivo profondo, ansia e disturbi del sonno. A questo si aggiunge il terribile potere dell’anonimato e della distanza fisica. Dietro uno schermo, il persecutore non vede gli occhi lucidi della vittima, non ne percepisce il tremore o il pianto. Venendo meno questo feedback visivo, si disattivano quei naturali freni inibitori (l’empatia) che normalmente ci impediscono di essere crudeli. È il cosiddetto “effetto di disinibizione”: ragazzi che nella vita reale sarebbero miti, online possono trasformarsi in aguzzini spietati perché non toccano con mano il dolore che provocano. Inoltre, la permanenza dei contenuti rende il danno potenzialmente eterno: una foto o un insulto possono essere ricondivisi all’infinito, condannando la vittima a rivivere l’umiliazione ogni giorno, senza la speranza che il tempo cancelli l’accaduto.

La prevenzione non può basarsi solo sulla paura delle sanzioni o sul sequestro dei telefoni, strategie che spesso si rivelano controproducenti perché isolano ulteriormente il ragazzo. La psicologia di comunità ci suggerisce di lavorare sul “noi”. Il bullismo prolifera dove la comunità è frammentata e dove gli “spettatori” restano in silenzio. La strategia più efficace è trasformare la classe e la famiglia in una rete di protezione attiva.

A scuola, questo significa passare dall’essere spettatori passivi (bystanders) a difensori attivi (upstanders). Quando il gruppo dei pari, e non solo l’insegnante, disapprova il comportamento aggressivo e sostiene la vittima, il bullo perde il suo “palcoscenico” e il suo potere.

In famiglia, la prevenzione passa per un’educazione emotiva: dobbiamo insegnare ai nostri figli a riconoscere le emozioni che provano online. Chiedere loro “come ti sei sentito dopo aver letto quel commento?” è molto più utile che controllare ossessivamente la cronologia, perché allena la loro bussola interiore.

Per comprendere veramente la pericolosità del cyberbullismo, dobbiamo entrare nel laboratorio del cervello adolescenziale. La ricerca neuroscientifica ha rivelato qualcosa di inquietante: il bullismo digitale non è solo una ferita emotiva, ma provoca alterazioni strutturali e funzionali nel cervello della vittima, con conseguenze che possono durare anni. Quando un adolescente viene cyberbullizzato, il suo cervello attiva una risposta di stress cronico. Immaginiamo il cervello come un sistema di allarme: l’amigdala è il campanello che suona quando percepiamo una minaccia. Nel cyberbullismo, questo campanello suona continuamente. L’amigdala rimane iperattiva perché lo stimolo aggressivo (un nuovo commento, una foto condivisa, un video) può arrivare in qualunque momento, ovunque. A livello biologico, il corpo produce continuamente cortisolo, l’ormone dello stress. In piccole quantità, il cortisolo ci aiuta ad affrontare pericoli temporanei, ma in eccesso, diventa tossico, specialmente nel cervello ancora in sviluppo degli adolescenti. Questo eccesso di cortisolo danneggia alcune strutture cerebrali fondamentali. L’ippocampo, che gestisce la memoria e le emozioni, può ridurre il suo volume e la densità delle connessioni neurali, rendendo la vittima più vulnerabile a depressione e disturbi della memoria. Ma il danno più devastante riguarda il circuito che collega l’amigdala alla corteccia prefrontale—l’area del cervello responsabile del ragionamento, del controllo degli impulsi e della regolazione emotiva. In una vittima di bullismo, questo circuito funziona male: l’amigdala continua a mandare segnali d’allarme, ma la corteccia prefrontale non riesce a “spegnere” il campanello, a dire “non è una vera minaccia adesso”. Il risultato è un adolescente che vive in uno stato di allerta perenne, incapace di rilassarsi.

La ricerca italiana condotta dal CNR ha fornito dati ancora più precisi sulla gravità del fenomeno: il 65% dei giovani dichiara di aver subito violenza, e tra questi il 63% ha subito bullismo tradizionale ma il 19% cyberbullismo. Tuttavia, le conseguenze del cyberbullismo sono sproporzionatamente gravi: il 47% degli adolescenti cybervittimizzati riporta ansia sociale e attacchi di panico, il 45% isolamento, e il 75% perdita di autostima e fiducia negli altri. Inoltre, studi recenti mostrano che il 67% delle vittime di deepfake legati al cyberbullismo sviluppa conseguenze psicologiche gravi tra cui depressione persistente.

La famiglia è il primo “vaccino” psicologico!

Se il cervello adolescenziale è vulnerabile, la famiglia è il primo e più potente fattore protettivo. La ricerca scientifica è chiara: la fiducia nei confronti di familiari e amici è uno dei fattori protettivi più significativi contro lo sviluppo di disturbi psichici legati al cyberbullismo. Un genitore presente, che dialoga senza giudicare, che sa ascoltare le paure senza minimizzarle, letteralmente protegge il cervello del figlio dall’attivazione cronica dello stress. Tuttavia, la sfida moderna per i genitori è un equilibrio delicato: vigilanza senza controllo ossessivo. La legge italiana (sentenza del Tribunale di Brescia, 2025) sottolinea che i genitori hanno il dovere di sorvegliare i figli online, ma questo non significa controllare ogni messaggio. Al contrario, un controllo percepito come invasivo spinge il ragazzo verso il segreto, verso comportamenti nascosti online, perdendo proprio quella relazione di fiducia che lo protegge. La miglior vigilanza è quella che crea uno spazio psicologico sicuro dove il ragazzo dice volontariamente: “Mamma, qualcosa di brutto è successo oggi online”. E il genitore sa che il figlio, vedendo i suoi genitori calmi, responsabili, e non punitivi verso chi è vittima, sarà incentivato a confidarsi.

In termini concreti, questo significa:

creare rituali di comunicazione (cena insieme, viaggio in macchina, gita al weekend) dove si chiacchiera di cosa accade online senza il telefono in mano.

Insegnare ai figli come “prendersi cura” della loro reputazione digitale, non attraverso la paura, ma attraverso il dialogo: “Se pubblichi questa foto, come potrebbe essere interpretata?”.

Essere trasparenti sulla propria vita digitale: i genitori che usano i social con equilibrio e gentilezza insegnano più delle parole.

Quando il cyberbullismo ha già provocato un danno significativo (ansia, depressione, ideazione suicidaria), l’intervento psicologico diventa essenziale. La ricerca evidenzia l’efficacia della terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing. Lungi dall’essere una “cura magica”, l’EMDR è un metodo riconosciuto che aiuta il cervello a “elaborare” il ricordo traumatico attraverso stimolazioni bilaterali (il paziente segue con gli occhi i movimenti delle dita del terapeuta). Durante questa stimolazione, il ricordo traumatico passa dalle reti neurali primitive (amigdala iperattiva) alle reti di memoria più evolute, dove diventa un ricordo come altri: “Doloroso, spiacevole, ma non devastante”. La vittima riacquista controllo e la capacità di dire “Questo mi è accaduto, ma non mi definisce”. Parallelamente, la psicoterapia costruttivista ha dimostrato efficacia nel lavorare sulla rielaborazione narrativa della vittima. Non si tratta semplicemente di “dimenticare”, ma di riscrivere il significato dell’esperienza. Quel video imbarazzante che è stato pubblicato non è “la prova che sono un fallito”, ma “il simbolo del mio coraggio di espormi e della crudeltà altrui”. Questa trasformazione narrativa, guidata da uno psicoterapeuta competente, riporta il controllo della storia al ragazzo stesso.

Per tradurre tutto questo in azioni concrete, ecco un piano sistemico che coinvolge famiglia, scuola e comunità:

In famiglia (ogni giorno):

Crea un “rituale digitale”: ogni sera, a cena, dedicare 10 minuti senza telefoni per chiacchierare di cosa è accaduto online. Non è interrogatorio, ma conversazione: “Che commenti hai visto oggi? Quale ti ha colpito?”.

Insegna il “filtro triplo” prima di postare: È vero? È gentile? È necessario? Se la risposta è no a uno di questi, non condividere.

Monitora senza controllare: invece di afferrare il telefono del figlio, chiedi: “Mi mostra questa chat? Cosa ne pensi di come ha risposto il tuo amico?”. Stai insegnando il discernimento, non sorveglianza.

Sii il primo modello: se vedi tuo figlio che scrive un commento offensivo sotto il profilo di una amica, parla con calma: “Ho visto quel commento. Credi che potrebbe aver fatto male? Cosa potresti fare adesso?”.

A scuola (durante l’anno)

Implementa un programma evidence-based: non inventare, ma adottare programmi come NoTrap!, KiVa o Empatia Digitale, che hanno dati di efficacia scientifica.

Forma i peer educators: identifica 2-3 ragazzi carismatici per classe e formali con formazione specifica (4-6 ore) su come riconoscere i segnali di bullismo e come supportare i compagni.

Attiva uno “sportello di ascolto”: uno psicologo scolastico che non giudica, a cui i ragazzi possono rivolgersi in anonimato se stanno subendo bullismo o se sentono di essere diventati bulli.

Crea un protocollo chiaro di intervento: se accade un episodio, il dirigente, entro 48 ore, contatta i genitori, attiva il supporto per la vittima, guida il bullo verso il riconoscimento del danno (non la semplice punizione).

Nella comunità locale (parrocchia, oratorio):

Proponi formazioni per genitori: 2-3 serate all’anno dove un esperto dialoga con i genitori su cosa sta accadendo online, quali sono i segnali d’allarme, come dialogare con i figli.

Crea gruppi di sostegno per adolescenti: momenti informali dove i ragazzi possono condividere sfide online in un ambiente accogliente e sicuro.

Testimonia online: sacerdoti, catechisti, animatori usino i social in modo esemplare, con gentilezza e verità, mostrando che è possibile una rete più umana.

Se il danno è già avvenuto (intervento d’emergenza): non minimizzare: se tuo figlio dice “Mi hanno bullizzato online”, la prima reazione non è “Ma avrai fatto qualcosa”, ma ascolto empatico: “Deve essere terribile. Sono qui per te”.

Raccogliere prove: screenshot, nomi degli account, data e ora. Non per vendetta, ma per eventuale coinvolgimento della scuola o della polizia se necessario.

Contattare la scuola: comunicare l’accaduto al dirigente e al referente bullismo. La scuola ha il dovere di intervenire.

Cercare supporto psicologico: uno psicologo specializzato può aiutare il ragazzo a elaborare il trauma, ricostruire l’autostima e sviluppare resilienza.

Segnalare alle piattaforme: la maggior parte dei social ha funzioni per segnalare contenuti offensivi e bloccare utenti. Usarle.

Coinvolgere le forze dell’ordine solo se necessario: se si tratta di estorsione, revenge porn, minacce dirette, c’è una base legale per denunciare (legge 71/2017 contro il cyberbullismo).

Il cyberbullismo è sicuramente più pericoloso del bullismo tradizionale perché invade pervasivamente il cervello dell’adolescente, impedendo quel riposo emotivo che è essenziale per la salute mentale. La prevenzione è possibile quando la società, famiglia, scuola, comunità smette di vedere questa realtà come un problema “tecnico” (bloccare i social) e lo riconosce per quello che è: un’emergenza relazionale e spirituale. La sfida del cyberbullismo si vince riportando l’umanità al centro della tecnologia. Dobbiamo formare ragazzi che sappiano abitare la rete con la “schiena dritta” dei valori e il cuore aperto all’accoglienza, ricordando loro che il valore di una persona non si misura mai dai like che riceve, ma dall’amore che è capace di dare e ricevere.


@Foto Marco Calvarese/Sir

PAOLO MOROCUTTI 04 dic 2025 05:39