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05 nov 2020 09:53

Covid, il punto di vista delle donne

Il coordinamento donne del centro-sinistra di Brescia

La pandemia con l’avvio del lavoro a distanza e la chiusura delle scuole ha penalizzato in particolar modo le donne, relegandole ancora una volta fra le mura domestiche e privandole di quel ruolo sociale così faticosamente conquistato. Ancora una volta sulle spalle delle donne (ormai passate alla leggenda per la loro capacità multitasking) si sono moltiplicate le competenze richieste: mentre svolgevano il lavoro a distanza, collegate ad un PC, proseguivano nel lavoro di cura a cui si aggiungeva il dover seguire i figli per la didattica on line.

Se guardiamo al Paese Italia, possiamo vedere che si conferma un tasso di occupazione femminile di 18 punti percentuali inferiori a quello maschile, un lavoro part time del 73 % per la maggior parte involontario e un reddito complessivo femminile in media del 25% inferiore a quello dell’uomo.

Insomma, il covid ha evidenziato ancora una volta una forte discriminazione sociale di genere. Per questo non possiamo non sostenere il governo affinché impieghi i fondi del RECOVERY PLAN per l’ampliamento di quella rete di servizi che da un lato liberino la donna dal peso del lavoro di cura, permettendole di affermarsi nel mercato del lavoro, e dall’altro modernizzino il nostro sistema di welfare.

Vogliamo qui ricordare che la scuola, a partire dalla primissima infanzia, svolge prioritariamente un importante funzione educativa e di sviluppo dei saperi.

Eppure, anche durante questa seconda ondata di contagi, non si è atteso a sospendere quasi totalmente la didattica in presenza nelle scuole superiori a favore di quella a distanza, contrariamente a quanto fatto nelle scuole del primo ciclo: ancora una volta si conferma la visione assistenziale che il nostro paese ha della scuola.

Rivendichiamo a gran voce che la scuola è fatta di relazione e di un processo di crescita collettiva dei saperi.

I giovani, soprattutto in questa fase in cui prevale l’incertezza, hanno bisogno di incontrarsi, di scambiare conoscenze di sentirsi accompagnati dai loro insegnanti. Tutto questo non può essere sostituito da un monitor.

Ha scritto recentemente Luisa Bossa su Repubblica:

“Si è vissuto nell’idea che la scuola fosse sacrificabile, salvo accorgerci-come un dente cavato- che se la togli, resta un buco doloroso.” E ancora: “Che mondo è quello con gli edifici scolastici chiusi e i ragazzi sigillati nelle loro camerette davanti ad un tablet o ad un PC? Un mondo arido, e tutti capiamo che mai la famiglia potrà da sola supplire alla forza di una classe scolastica; nulla potrà sostituire l’esperienza dello stare insieme, del crescere insieme, nell’educazione e nella formazione” Per questo crediamo che, se il problema è l’affollamento dei trasporti pubblici, le Regioni debbano affrontarlo per aumentare le corse, anche favorendo convenzioni con le agenzie private, per permettere in tempi brevi la ripresa delle lezioni almeno per il 50% del monte ore, integrandolo con la didattica a distanza.

Mentre i DPCM si susseguono e la destra soffia sul fuoco, strumentalizzando la rabbia sociale ed alimentando quell’individualismo che muove le diverse categorie alla protesta di piazza, un’altra domanda si fa strada nella nostra mente: si può vivere bene ai tempi della pandemia? Le restrizioni hanno tolto punti di riferimento ai giovani, alle donne e agli uomini e soprattutto la limitazione delle relazioni ci ha messo tutti di fronte a quesiti esistenziali in cui l’incertezza è il sentimento dominante.

Ma è proprio l’incertezza che alimenta l’impegno etico al cui centro c’è la cura dell’altro: bisogna cambiare rotta. Solo dal superamento di una visione individualistica dell’uomo spinto al raggiungimento di un benessere personale e utilitaristico può rinascere una visione della vita generosa e dedicata all’ascolto dell’altro. Questa visione solidale della vita, che vede le donne naturalmente protagoniste, può portare a superare il pessimismo che ci rinchiuderebbe alla condizione pandemica e alle sue sofferenze. La letteratura è piena di riferimenti a epidemie, da Manzoni a Camus. Gabriel Garcia Marquez scrisse “L’amore ai tempi del colera” e Axel Munthe “Lettere da una città dolente”. In entrambi i casi l’epidemia fa da sfondo a storie profondamente umane. Andrea Vicini di loro ha scritto: “Entrambi gli autori ci invitano a contemplare come sia possibile vivere ai tempi di un’epidemia, quali testimoni involontari delle sofferenze umane, desiderosi di aiutare i più bisognosi e coscienti dei rischi di contagio.”

Anche oggi da più parti si sente parlare di nuovo umanesimo. Papa Francesco ci ha offerto una visione nuova di umanesimo fondata sull’ascolto e sulla concretezza, senza essere ossessionati dall’efficienza, combattendo l’indifferenza con l’attenzione all’altro. Edgar Morin da tempo afferma: “E’ necessario umanizzare i saperi per limitare la dispersione della conoscenza. Come fare a riunire i saperi delle varie discipline? Serve un sapere complesso, serve un nuovo umanesimo, un umanesimo concreto…. Come apprendere a vivere? È necessaria una riforma del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta. Oggi i giovani sono persi, non trovano le ragioni dell’essere. Durante la Seconda guerra mondiale i giovani dovevano resistere al nazi-fascismo, divennero partigiani e contribuirono a liberare i loro paesi. Oggi i giovani hanno un compito ancora più gravoso: la salvezza del genere umano, dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad assolvere a questo compito fondamentale.”

È ancora Morin ad indicarci la battaglia della conoscenza come diritto inalienabile delle giovani generazioni e allora diciamo che i luoghi della cultura, le scuole, i cinema, i teatri sono i primi che devono essere riaperti.

05 nov 2020 09:53