Il Venezuela è diventato uno Stato brutale e autor
Il discorso del Presidente del Comitato Norvegese per il Nobel, Jørgen Watne Frydnes, pronunciato il 10 dicembre, durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, fotografa la drammatica situazione del Venezuela
Samantha Sofía Hernández, un’adolescente di 16 anni, è stata brutalmente rapita il mese scorso da uomini incappucciati delle forze di sicurezza del regime di Maduro. L’hanno portata via dalla casa dei suoi nonni. Non sappiamo dove si trovi attualmente, probabilmente in uno dei centri di detenzione della dittatura. Può darsi che sia con suo padre, scomparso senza lasciare traccia lo scorso gennaio.
Qual è stato il suo peccato?
Suo fratello era un soldato, ma si era rifiutato di seguire gli ordini del regime di compiere atti brutali contro la popolazione.
Per quel “delitto”, tutta la famiglia deve essere punita.
A Juan Requesens viene ordinato di girarsi lentamente verso la telecamera. Le immagini lo mostrano in piedi, in biancheria intima, coperto di escrementi, con uno sguardo vuoto e confuso. Avrebbe “confessato” di aver pianificato un colpo di Stato.
Ma naturalmente non esistevano prove. Il giorno prima di essere arrestato, Juan era intervenuto davanti all’Assemblea Nazionale. Aveva pronunciato un discorso ripetendo una frase chiave: una promessa al suo Paese e a sé stesso: «Io mi rifiuto di arrendermi».
Alfredo Díaz, leader dell’opposizione ed ex sindaco, è stato portato via da un autobus lo scorso novembre e gettato nelle profondità dell’Helicoide, la più grande camera di tortura dell’America Latina. Un prigioniero politico in più in una lista interminabile. Questa settimana è arrivata la notizia della sua morte. Un’altra vita spezzata. Un’altra vittima del regime.
Queste storie non sono isolate. Questa è la Venezuela di oggi. È così che il regime venezuelano tratta i suoi cittadini. Una sorella. Uno studente. Un politico. Chiunque osi ancora credere nel dire la verità ad alta voce può sparire violentemente dentro un sistema creato appositamente per cancellare quella convinzione.
Samantha, Juan e Alfredo non erano estremisti. Erano venezuelani comuni che sognavano libertà, democrazia e diritti.
Per questo sono stati privati della loro vita.
Questo regime non risparmia nemmeno i bambini. Più di 200 minori sono stati arrestati dopo le elezioni del 2024. Le Nazioni Unite hanno documentato ciò che hanno subito:
Sacchetti di plastica stretti sulla testa.
Scariche elettriche ai genitali.
Percosse così violente da rendere doloroso il semplice respirare.
Violenza sessualizzata.
Celle così fredde da provocare tremori incontrollabili.
Acqua potabile contaminata, piena di insetti.
Urla a cui nessuno ha risposto per mettere fine al tormento.
Un bambino giaceva nell’oscurità sussurrando il nome di sua madre, più e più volte, sperando che lei non pensasse che fosse morto.
Un ragazzo di 16 anni è finalmente tornato a casa, così devastato dalle scariche elettriche e dalle botte che non riusciva ad abbracciare sua madre senza provare un dolore lancinante in tutto il corpo. Per mesi si è spaventato per ogni rumore e ha dormito pochissimo. Di notte si svegliava di colpo, convinto che i soldati fossero tornati per riprendere gli attacchi.
Mentre siamo seduti qui, nel Municipio di Oslo, persone innocenti sono rinchiuse in celle oscure in Venezuela. Non possono udire i discorsi di oggi: sentono solo le urla dei prigionieri torturati.
Così i poteri autoritari tentano di schiacciare coloro che difendono la democrazia. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che questi atti costituiscono crimini contro l’umanità.
Questo è il regime di Nicolás Maduro.
Il Venezuela è diventato uno Stato brutale e autoritario, immerso in una profonda crisi umanitaria ed economica. Nel frattempo, una piccola élite al potere, protetta da armi e impunità, si arricchisce.
All’ombra di questa crisi, migliaia di donne e bambini vengono spinti nella prostituzione e nella tratta. Le figlie semplicemente scompaiono. I bambini diventano oggetti di commercio nelle mani di criminali che vedono nella disperazione un’opportunità di guadagno.
Un quarto della popolazione è già fuggito dal Paese: una delle più grandi crisi di rifugiati del mondo.
Chi resta vive sotto un regime che silenzia, molesta e attacca sistematicamente l’opposizione.
Il Venezuela non è solo in questa oscurità. Il mondo sta prendendo una brutta direzione. I regimi autoritari avanzano.
Dobbiamo porci una domanda scomoda:
Perché ci risulta così difficile preservare la democrazia, una forma di governo concepita per proteggere la nostra libertà e la nostra pace?
Quando la democrazia fallisce, il risultato è più conflitto, più violenza, più guerra.
Il 2024 ha visto più elezioni di qualsiasi altro anno precedente, ma sempre meno sono libere e giuste. Il potere della legge è abusato. I media liberi vengono silenziati. I critici imprigionati.
Sempre più Paesi, anche quelli con una lunga tradizione democratica, stanno scivolando verso l’autoritarismo e il militarismo.
I regimi autoritari imparano gli uni dagli altri. Condividono tecnologie e sistemi di propaganda. Dietro Maduro ci sono Cuba, Russia, Iran, Cina e Hezbollah, che forniscono armi, sistemi di sorveglianza e vie di sopravvivenza economica. Rendono il regime più solido e più brutale.
Eppure, nel mezzo di questa oscurità, ci sono venezuelani che si rifiutano di arrendersi. Coloro che mantengono viva la fiamma della democrazia. Che non cedono mai, nonostante l’enorme costo personale. Ci ricordano costantemente ciò che è in gioco.
Molti di loro sono qui oggi:
Il presidente eletto del Venezuela, Edmundo González Urrutia.
Carlos, il poeta.
Claudia, l’attivista.
Pedro, il professore universitario.
Ana Luisa, l’infermiera.
Corina, la nonna.
Antonio, il politico dell’opposizione.
María Corina, la vincitrice del Premio Nobel per la Pace.
Al centro della lotta per la democrazia brilla una semplice verità: la democrazia è più di una forma di governo. È anche la base per una pace duratura.
Milioni di venezuelani lo sanno.
Anno dopo anno, studenti, sindacati, giornalisti, imprenditori e cittadini comuni si sono mobilitati in ondate di resistenza.
Hanno riempito le strade in segno di protesta. Quando hanno rubato loro i voti, hanno fatto risuonare le casseruole. Quando la sorveglianza statale è diventata opprimente, hanno sussurrato.
Persone di tutto lo spettro politico—da comunisti a conservatori—si sono alzate per sfidare il regime. L’opposizione ha provato una strategia dopo l’altra.
In tutto questo hanno detto: Non lottiamo per vendetta, ma per giustizia.
Per l’inviolabilità delle urne. Per la democrazia. Per la pace.
Ma la risposta è stata: queste cose sono impossibili. Fallirete.
E quando i venezuelani hanno chiesto al mondo di prestare attenzione, abbiamo voltato loro le spalle.
Mentre perdevano diritti, cibo, salute, sicurezza—e infine il futuro—gran parte del mondo si è aggrappata a vecchie narrazioni. Alcuni insistevano sul fatto che il Venezuela fosse una società egualitaria ideale. Altri vedevano solo un conflitto contro l’imperialismo. Altri ancora interpretavano la realtà venezuelana come una competizione tra superpotenze, ignorando il valore di chi lottava per la libertà nel proprio Paese. Tutti questi osservatori hanno qualcosa in comune: il tradimento morale nei confronti di coloro che vivono sotto un regime brutale.
Se sostieni solo chi condivide le tue opinioni politiche, non hai capito né la libertà né la democrazia. Eppure molti critici si fermano lì. Vedono le forze democratiche locali cooperare, per necessità, con attori che non apprezzano, e usano ciò come giustificazione per negare loro sostegno. Anteponendo ideologia a solidarietà umana.
Come dovremmo giudicare coloro che spendono la loro energia cercando difetti nelle difficili decisioni dei difensori della democrazia, invece di riconoscerne il coraggio e sacrificio o di chiedersi come possano anche loro contribuire alla lotta contro la dittatura?
È facile restare fedeli ai principi quando in gioco è la libertà degli altri. Ma nessun movimento democratico opera in condizioni ideali. I leader attivisti devono affrontare dilemmi che noi osservatori esterni possiamo permetterci di ignorare. Chi vive sotto una dittatura deve spesso scegliere tra il difficile e l’impossibile. Tuttavia, molti di noi—al sicuro—pretendono che i leader democratici del Venezuela perseguano i loro obiettivi con una purezza morale che i loro avversari non mostrano mai. È ingiusto. È irrealistico. E dimostra ignoranza della storia.
Molti di coloro che sono saliti su questo palco a ricevere il Premio Nobel per la Pace, tra cui Lech Wałęsa e Nelson Mandela, conoscevano bene i dilemmi del dialogo.
Nei sistemi autoritari, il dialogo può portare a miglioramenti, ma può anche essere una trappola. È spesso usato per guadagnare tempo, dividere e controllare l’agenda. María Corina Machado ha partecipato per anni a processi di dialogo. Non ha mai rifiutato il principio di parlare con l’altra parte, ma ha rifiutato i processi vuoti.
La pace senza giustizia non è pace.
Il dialogo senza verità non è riconciliazione.
Il futuro del Venezuela può assumere molte forme. Ma il presente è uno solo, ed è orribile.
Per questo l’opposizione democratica in Venezuela deve avere il nostro sostegno, non la nostra indifferenza o, peggio, la nostra condanna. Ogni giorno i suoi leader devono scegliere un percorso realmente percorribile, non quello delle illusioni.
Sostenere lo sviluppo democratico significa sostenere la pace.
Ma dall’annuncio del Premio Nobel di quest’anno è sorta una domanda: la democrazia conduce davvero alla pace?
I risultati della ricerca sono chiari, e la risposta è sì. Non perché la democrazia sia perfetta, ma perché i suoi meccanismi rendono la guerra meno probabile.
Le democrazie hanno valvole di sicurezza: media liberi, separazione dei poteri, tribunali indipendenti, società civile attiva, elezioni che permettono di cambiare leadership senza violenza. In tale ambiente, le opinioni divergenti non sono una minaccia, ma una risorsa.
In una democrazia, un leader che ignora i fatti può essere sostituito alle urne. In un regime autoritario, il leader rimane e sostituisce chiunque dica verità scomode. La lealtà sostituisce la realtà e si prendono decisioni pericolose nell’ombra. La guerra ha sempre un costo elevato, ma nei regimi autoritari non sono i leader a pagarlo. Per questo le democrazie quasi mai vanno in guerra tra loro, a differenza degli Stati autoritari.
Il mandato di Nicolás Maduro lo dimostra. I conflitti sono risolti con la forza, non con la negoziazione. Il risultato è una società in cui milioni sono costretti al silenzio, con conseguenze che travalicano i confini. L’instabilità, la violenza e la distruzione delle istituzioni hanno colpito l’intera regione; un Paese vicino è stato persino minacciato di invasione militare. Il Venezuela dimostra—con dolorosa chiarezza—che l’autoritarismo non solo distrugge una società dall’interno, ma diffonde instabilità anche oltre confine.
La democrazia non è una garanzia di pace, ma è il sistema più efficace per prevenire conflitti e violenza.
Questo ragionamento suscita spesso un controargomento: che la democrazia genera disordini, che reclamare la libertà sia pericoloso. È un’idea antica, usata dai leader autoritari per giustificare la loro permanenza al potere. Oggi è rafforzata da propaganda e disinformazione.
Signore e signori:
Come cittadini di democrazie, abbiamo il dovere di essere critici con le nostre fonti di informazione. Dovrebbero suonarci campanelli d’allarme quando le opinioni che esprimiamo sono identiche a quelle diffuse da uno dei sistemi di propaganda più manipolatori del mondo. In quel caso, non stiamo solo diffondendo informazioni: stiamo amplificando la propaganda strategica di un dittatore.
Cosa dobbiamo pensare quando leggiamo che è l’opposizione venezuelana a minacciare il Paese con la guerra, o che il movimento democratico desidera un’invasione? Quando il racconto è completamente ribaltato e le vittime vengono etichettate come aggressori? Questa è la “realtà” che il regime di Maduro offre al mondo: che il suo regime sia garanzia di pace. Ma unas pace fondata sulla paura, sul silenzio e sulla tortura non è pace; è sottomissione mascherata da stabilità.
No: l’origine della violenza non sono gli attivisti democratici. La violenza proviene da chi è al potere e si rifiuta di cederlo. Non è stato Nelson Mandela a rendere il Sudafrica violento, ma la repressione del regime dell’apartheid contro le richieste di uguaglianza. Non sono stati i gruppi di opposizione a dare inizio alle incarcerazioni in Bielorussia, alle esecuzioni in Iran, o alla persecuzione in Venezuela. La violenza nasce dai regimi autoritari quando reprimono le richieste popolari di cambiamento.
Pace e democrazia non possono essere separate senza perdere entrambe il loro significato. La pace duratura richiede Stato di diritto, partecipazione politica, rispetto della dignità umana.
Prima di poter dibattere le nostre divergenze politiche, dobbiamo stabilire almeno un minimo di democrazia. Senza di essa, non esiste una distinzione significativa tra destra e sinistra, non esiste un modo legittimo di dissentire, né una vita politica autentica.
La democrazia non è un lusso superfluo.
Non è un ornamento da mettere su uno scaffale.
La democrazia è lavoro duro.
È azione e negoziazione.
È un obbligo vivo.
Gli strumenti della democrazia sono strumenti di pace.
Ci riuniamo oggi, quindi, per difendere qualcosa di molto più importante di uno dei due lati di una divisione politica o ideologica. Ci riuniamo per difendere la democrazia stessa, il fondamento su cui si basa una pace duratura.
Quando le persone si rifiutano di rinunciare alla democrazia, si rifiutano anche di rinunciare alla pace. Chi comprende profondamente questa verità è María Corina Machado.
Come fondatrice di Súmate, un’organizzazione dedicata alla costruzione della democrazia, María Corina Machado si è fatta avanti oltre vent’anni fa per difendere elezioni libere e giuste. Come lei stessa disse: «Fu una scelta di voti contro proiettili».
Attraverso le sue responsabilità politiche e il lavoro nelle organizzazioni, ha difeso l’indipendenza giudiziaria, i diritti umani e la rappresentanza popolare. Ha dedicato anni alla libertà del popolo venezuelano.
Le elezioni presidenziali del 2024 sono state decisive per l’assegnazione del Premio Nobel di quest’anno. María Corina Machado era la candidata dell’opposizione e la voce unificatrice della speranza nel Paese. Quando il regime ha bloccato la sua candidatura, il movimento avrebbe potuto crollare, ma lei ha sostenuto Edmundo González Urrutia, e l’opposizione è rimasta unita.
L’opposizione ha trovato un terreno comune nella richiesta di elezioni libere e di un governo rappresentativo. Questo è il fondamento stesso della democrazia: la volontà di difendere i principi del governo del popolo anche quando si è in disaccordo sulle politiche. In un momento in cui la democrazia è minacciata ovunque, difendere questo terreno comune è più importante che mai.
Centinaia di migliaia di volontari si sono mobilitati oltre ogni divisione politica. Sono stati formati come osservatori elettorali e hanno usato tecnologie nuove per documentare ogni fase del processo. Fino a un milione di persone ha sorvegliato i seggi in tutto il Paese. Hanno caricato i verbali, fotografato le schede e messo al sicuro le copie prima che il regime potesse distruggerle. Hanno difeso quella documentazione con la propria vita e poi si sono assicurati che il mondo conoscesse i risultati.
È stata una mobilitazione popolare senza precedenti in Venezuela e forse nel mondo. Cittadini comuni, da ogni ambito, hanno svolto un lavoro sistematico e tecnologicamente avanzato di documentazione in un clima di minacce, sorveglianza e violenza.
Gli sforzi di questo movimento democratico, prima e dopo le elezioni, sono stati innovativi, coraggiosi, pacifici e profondamente democratici.
L’opposizione ha ottenuto sostegno internazionale quando i suoi leader hanno reso pubblici i risultati raccolti distretto per distretto, che dimostravano chiaramente la vittoria dell’opposizione.
Ma il regime ha negato tutto. Ha falsificato i risultati e si è aggrappato al potere, ricorrendo alla violenza.
Negli ultimi dodici mesi, la signora Machado è stata costretta a vivere in clandestinità.
Nonostante le gravi minacce, è rimasta nel Paese ed è stata fonte di ispirazione per milioni.
Riceve il Premio Nobel per la Pace 2025 per il suo instancabile impegno nel promuovere i diritti democratici del popolo venezuelano e per la sua lotta per una transizione pacifica e giusta dalla dittatura alla democrazia.
Per molto, molto tempo, l’opposizione venezuelana ha utilizzato tutti gli strumenti della democrazia per sostenere la sua campagna civile e pacifica. Negli anni, la signora Machado e i suoi alleati hanno dovuto adattarsi e cambiare tattiche. Hanno usato quasi tutti gli strumenti democratici: dal boicottaggio elettorale quando il sistema era troppo corrotto alla partecipazione quando esisteva qualche spiraglio. Hanno tentato il dialogo, l’organizzazione, la mobilitazione e un enorme lavoro di documentazione elettorale.
La signora Machado ha richiesto attenzione, sostegno e pressione internazionale—non un’invasione del Venezuela.
Ha esortato la popolazione a difendere i propri diritti con mezzi pacifici e democratici.
Gli studi sulla pace lo dimostrano: le mobilitazioni non violente su larga scala sono tra i metodi più efficaci per produrre cambiamento politico nelle dittature. Quando una popolazione si mobilita, la comunità internazionale esercita pressione e le forze di sicurezza evitano la violenza, può raggiungersi un punto di svolta.
Come leader del movimento democratico in Venezuela, María Corina Machado è uno degli esempi più straordinari di coraggio civile nella storia recente dell’America Latina.
Il Premio Nobel di quest’anno soddisfa i tre criteri del testamento di Alfred Nobel.
Primo: l’opposizione venezuelana è riuscita a unire movimenti politici, società civile e cittadini con un obiettivo comune: il ripristino della democrazia. Riunire gruppi diversi prima in conflitto equivale oggi a ciò che Nobel definì “congressi per la pace”.
Secondo: il movimento democratico in Venezuela ha contrastato la militarizzazione della società promossa dal regime, che ha armato gruppi, autorizzato milizie paramilitari e invitato forze straniere, accelerando la militarizzazione. Documentando gli abusi ed esigendo responsabilità, l’opposizione mira a rafforzare l’autorità civile e a ridurre il potere delle armi. Ciò sottrae armamento e autonomia ai criminali e alle milizie pro-regime, soddisfacendo il criterio del disarmo.
Terzo: la vera fraternità immaginata da Nobel richiede la democrazia. Solo quando le persone possono scegliere i propri leader e parlare senza paura può radicarsi la pace, dentro e tra i Paesi. La democrazia è la forma più alta di fraternità e il percorso più sicuro verso una pace duratura.
Perciò, oggi, qui, in questa sala—con tutta la solennità del Premio Nobel per la Pace e di questa cerimonia—diremo ciò che i leader autoritari temono di più: il suo potere non è permanente. La sua violenza non prevarrà su un popolo che si solleva e resiste.
Signor Maduro: Deve accettare i risultati elettorali e dimettersi. Deve porre le basi per una transizione pacifica verso la democrazia. Perché questa è la volontà del popolo venezuelano.
María Corina Machado e l’opposizione venezuelana hanno acceso una fiamma che nessuna tortura, nessuna menzogna, nessuna paura potrà spegnere.
Quando verrà scritta la storia della nostra epoca, non saranno i nomi dei governanti autoritari a prevalere, ma quelli di coloro che hanno osato resistere.
Coloro che sono rimasti saldi davanti al pericolo. Coloro che hanno continuato quando altri si sono arresi.
@Foto Missio/Antonello Veneri)