Carriere da separare?
Separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero: quid juris? Ad oggi la magistratura ordinaria italiana è unificata. I giovani magistrati seguono un percorso comune: possono passare dal ruolo di giudice (che decide le cause) a pubblico ministero – pm (che conduce le indagini penali e rappresenta l’accusa), e viceversa. Il 18 novembre la Corte di Cassazione ha ammesso il quesito referendario che si voterà entro marzo 2026 previa indizione del Presidente della Repubblica: “Approvate il testo della legge di riforma costituzionale concernente ‘Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?”. La reale domanda è la seguente: “Confermate o no la riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere nella magistratura?”. La riforma parlamentare intende modificare l’autogoverno della magistratura. Si prevedono due Consigli superiori della magistratura (Csm), uno per i giudici e uno per i pm, creati tramite sorteggio. Verrebbe istituita l’Alta Corte disciplinare autonoma, competente sui procedimenti disciplinari dei magistrati.
A prescindere da una prima riflessione immediata sull’enorme divergenza fra forma e sostanza del quesito, a scapito della chiarezza doverosa verso i cittadini, nascono riflessioni sulla complessità del tema. Il referendum mira a modificare la Costituzione. Le riforme costituzionali – se non sono approvate da almeno 2/3 dei componenti di Camera e Senato – a certe condizioni possono essere sottoposte a referendum confermativo. Ad oggi deputati e senatori non sono d’accordo. Gli elettori voteranno “sì” se sono d’accordo con l’approvazione della riforma costituzionale, o viceversa. A differenza dei referendum abrogativi, in questo caso non è previsto il quorum ed il risultato del referendum sarà valido indipendentemente dal numero dei votanti.
Chi sostiene il “sì” ritiene che la riforma porterebbe più imparzialità del giudice, meno “vicinanza culturale” fra giudice e pm, modernizzazione del sistema e allineamento ai modelli accusatori di altri Paesi, carriere più trasparenti, riduzione dei conflitti interni fra i due ruoli, percezione di giustizia più “terza” tra accusa e giudice. Chi sostiene il “no” lamenta: rischio di perdita dell’unità della magistratura, indipendenza dei pm meno garantita, loro esposizione a pressioni politiche, regole operative assenti ed incertezza, mancata soluzione dei veri problemi della giustizia (tempi lunghi, carenza di personale, burocrazia), pericolo di tensione istituzionale e complicazione dei procedimenti penali.