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di MASSIMILIANO PADULA 29 lug 2016 00:00

Fenomeno Pokémon Go

I media siamo noi. Pokémon Go è ciò che noi vogliamo che sia. Sta all’uomo scegliere di esserne fagocitato rischiando di andare a sbattere contro un palo per strada o di viverlo in modo autentico, come una semplice opportunità di svago e divertimento

Alla ricerca di mostriciattoli. In ufficio, per strada, al parco, ovunque. E da qualche giorno anche in Italia. L’applicazione ludica “Pokémon Go” è il fenomeno mediale del momento. Almeno secondo la casa produttrice Nintendo che ha moltiplicato il suo titolo in borsa e spinge il suo prodotto a forza di proclami stupefacenti. Ed ecco che il gaming per smartphone scalza, per numero di visualizzazioni e download, colossi digitali come Whatsapp, Instagram, Snapchat e Twitter. Oppure crea veri e propri comportamenti di massa come la ricerca ossessiva del Pokémon più raro. O ancora causa incidenti per la distrazione da sguardo fisso su schermo.

Pokémon Go diventa l’universo simbolico di una contemporaneità che ha ancora bisogno di eroi per trovare stralci di gratificazione. E lo fa rispolverando dal cassetto dei ricordi una produzione videoludica giapponese (che si è estesa poi nelle serie animate, nei manga, nei libri e nei gadget) che ha debuttato il 27 febbraio 1996 con la coppia di giochi Pokémon Rosso e Verde e poi in Occidente con la coppia Pokémon Rosso e Blu e che racconta le vicende di esserini immaginari che, una volta catturati, iniziano a combattere tra loro.

Nulla di nuovo, dunque, ma soltanto l’integrazione dell’esistente con altre tonalità tecnologiche come la geolocalizzazione o la realtà aumentata. Ma a ogni innovazione tecnica – si sa – corrisponde una mutazione antropologica. Nel caso di Pokémon Go le ambiguità da utilizzo sono dietro l’angolo e non sono per nulla incoraggianti. Scarichiamo dunque siamo. E diventiamo non solo pedine di un videogioco, ma testimonial inconsapevoli e gratuiti di una multinazionale. Pokémon Go è anzitutto una straordinaria trovata di marketing globalizzata e inglobante. L’homo ludens smentisce così se stesso, annulla il principio di libertà per trovarsi ingabbiato in una (sur)realtà aumentata alla ricerca spasmodica di qualcosa che non esiste. Pokémon Go, dunque, non è realtà. Nella vita offline questi animaletti della fantasia non esistono ma prendono forma in quella online così tanto da diventare presenze fisse di giornate trascorse a inseguirli.

L’identikit del “Pokémon Go addicted” è proprio questo: un uomo in cerca di qualcosa che non esiste eppure così reale da condizionare la sua esistenza.
Somiglia a quello che Simmel definiva “uomo blasé” riferendosi all’abitante metropolitano che si perde per la città e, nonostante i numerosi stimoli, diventa distaccato dal reale, in preda ad un attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose.

L’app della Nintendo diventa così un nemico dal quale guardarsi, l’ennesima opportunità di omologazione al media di turno, il demone che condiziona le nostre vite. Non è così. Almeno non fino in fondo. Pokémon Go come Facebook o qualunque altro spazio digitale, altro non è che una proiezione dell’umano: di chi lo pensa e crea e di chi lo usa e, in alcuni casi, abusa. L’uomo rimane sempre il protagonista di ogni forma di tecnologia, anche della più estrema. Ma a volte si perde per strada, non discerne, non esprime appieno le proprie qualità etiche. Per questo è necessario educarlo alle pratiche e ai formati di una medialità che è sempre più dimensione costitutiva del suo essere sociale. I media siamo noi. Pokémon Go è ciò che noi vogliamo che sia. Sta all’uomo scegliere di esserne fagocitato rischiando di andare a sbattere contro un palo per strada o di viverlo in modo autentico, come una semplice opportunità di svago e divertimento.
MASSIMILIANO PADULA 29 lug 2016 00:00