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di GIORGIO COMINI 21 gen 2016 00:00

Le pari opportunità giustificano tutto?

Le cosiddette unioni civili sono una questione che principalmente interessa le persone dello stesso sesso, desiderose di veder riconosciuto il loro legame dallo Stato italiano, passando da una situazione “di fatto” ad una “di diritto”

Le cosiddette unioni civili sono una questione che principalmente interessa le persone dello stesso sesso, desiderose di veder riconosciuto il loro legame dallo Stato italiano, passando da una situazione “di fatto” ad una “di diritto”. Per far questo, da alcuni anni si è messo in moto un laborioso iter parlamentare nel tentativo di produrre una legge che dica i contorni e i contenuti di un nuovo istituto giuridico. Sembra che questo processo stia giungendo al suo compimento proprio in questi giorni, con una forza d’urto mediatica sproporzionata al numero degli ipotetici beneficiari, ma adeguata sia per i molti interessi che ruotano attorno alla faccenda, che per il radicale cambiamento sociale proposto.

Rispetto al tempo dei DiCo, il variegato mondo politico e l’ugualmente articolato panorama dei giuristi, ormai, non mettono più in questione l’opportunità di inventare un simil matrimonio, ma semmai il dibattito in merito si colloca sul “come fare e quanto concedere”. Se stiamo alla proposta ora in discussione (Ddl Cirinnà), appare evidente che siamo di fronte al travasamento del matrimonio dentro un nuovo contenitore adatto per persone dello stesso sesso. La pietra di inciampo adesso è rappresentata dal tema figli: come ottenerli, come regolarli, quali legami legalizzare, ecc. A volte, può capitare che a forza di ripetere alcune affermazioni e di gridare slogan dalla facciata imponente, ma poi magari poveri di radici e di contenuto, si arrivi addirittura a consacrare una verità, estraendola dal cilindro dei desideri. È questo il caso dei famosi diritti negati alle persone dello stesso sesso che liberamente intendono vivere insieme. In realtà, nessuno nega affatto questa possibilità e neanche il raggiungimento di elementi di giustizia in ambito patrimoniale e di assistenza, tramite regolari accordi privati. Quello che rappresenta il cuore della contesa è il codificare questa unione, con tanto di diritti garantiti in automatico e i rispettivi doveri (pochi), ottenendo di fatto lo svilimento dei significati di coniugalità e di generatività. Sembra che sull’altare europeo delle “pari opportunità” tutto stia diventando sacrificabile. Ad esempio, fino ad ora abbiamo sempre riconosciuto che la maternità aveva significato per il confronto con la paternità e la figliolanza, e viceversa. Adesso rischiamo di ottenere per diritto, e non tanto come situazione di fatto, una maternità senza madre e una paternità senza padre; così come, un figlio senza genitore, nel senso con nessun legame neanche potenziale con la capacità generativa. Ma non abbiamo sempre detto che lo Stato dovrebbe difendere i più deboli, promuovere condizioni di vita stabili e oggettivamente buone per chi è meno attrezzato a vivere? Dov’è il diritto del figlio, del minore?

Per dare l’impressione di essere sposi e genitori a coloro che si mettono in condizioni oggettive di non poterlo essere, l’Italia sta per compiere un passo epocale, senza a mio parere aver tenuto conto delle questioni educative delle giovani generazioni, dell’aumento delle complicazioni relazionali e dell’inevitabile instabilità sociale. Poco più di una anno fa, così dichiarava il Consiglio Permanente della Cei: “ I Vescovi esprimono una chiara presa di distanza dal tentativo del legislatore di procedere al ‘riconoscimento delle cosiddette unioni di fatto’ e di dare ‘accesso al matrimonio di coppie formate da persone dello stesso sesso’. (Comunicato Finale del Consiglio Permanente Cei - Roma, 22 - 24 settembre 2014).
GIORGIO COMINI 21 gen 2016 00:00