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di GUIDO COSTA 10 dic 2015 00:00

Poletti provoca?

Non occorre essere dei grandi esperti per capire che quella di Poletti è la fotografia di un problema vero

Il ministro Poletti è finito di recente sulle prime pagine dei giornali con l’accusa di fare provocazioni gratuite sui giovani e di portare avanti idee da liberismo sfrenato sui contratti di lavoro. Ai primi ha posto il problema che deriva dal tirare troppo in lungo il percorso universitario (“I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo” e “si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni” che con uguale titolo di studio “hanno sei anni meno di loro”, ed è evidente che a quel punto il fattore età conta parecchio sull’esito della gara); sull’altra questione ha osservato che nei contratti di lavoro si continua a costruire la retribuzione più sul tempo trascorso nel luogo di lavoro che sui risultati del lavoro stesso. La levata di scudi a cui abbiamo assistito è sicuramente figlia della rincorsa alla notizia in cui sono quotidianamente impegnati i mass media, nel caso specifico davvero esagerata. Tanto più che il ragionamento su quello che i giornali hanno banalizzato nel titolo “Laurearsi a 30 anni non serve a un fico”, il ministro non l’ha fatto in un salotto televisivo o al bar con gli amici, ma discutendo con dei giovani su formazione e sbocchi occupazionali. E così per la questione orario di lavoro e contrattazione, che Poletti ha posto in un convegno di giuslavoristi e ricercatori universitari dedicato al Jobs Act.

Gli unici ad avere forse qualche ragione di agitarsi rispetto a quest’ultimo tema sono i sindacati. E lo hanno fatto – ci mancherebbe! – enfatizzando però toni e misura. Non occorre essere dei grandi esperti per capire che quella di Poletti è la fotografia di un problema vero. Accanto a situazioni di lavoro in cui luogo e orario sono parametri imprescindibili, si sono sviluppate, e non da ieri, professionalità e competenze che non sono legate ad uno spazio fisico e ad un tempo preciso, che si basano sull’autonomia e sul coinvolgimento cognitivo dei lavoratori. Lo “smart working”, il “lavoro agile” o in qualsiasi altro modo lo si voglia chiamare è una realtà con la quale bisogna misurarsi, anche nella riforma dei contratti che da tempo impegna le parti sociali. C’è un pezzo importante del nuovo mondo del lavoro – sempre meno residuale rispetto a quello tradizionalmente inteso – che non può più stare ai margini della contrattazione. Il cambiamento in atto nel sistema di relazioni tra cittadini, lavoratori e sindacato ha bisogno di risposte a bassa intensità ideologica ma ad alta intensità operativa.
GUIDO COSTA 10 dic 2015 00:00