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di PAOLO CORSINI 22 mag 2015 00:00

Seppellire i morti

Il nostro è un tempo di una società “post-mortale” che tende a rimuovere la morte dalla coscienza del soggetto

"Dal dì che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di sé stesse ed altrui....”. Così Ugo Foscolo, ne “I Sepolcri”, fa coincidere il costume della sepoltura con l’avvio del processo di civilizzazione dovuto all’istituzione del matrimonio, della giustizia, della religione. Ed in effetti in tutte le culture si sono sviluppati rituali per la sepoltura e il commiato dei morti: un’opera di misericordia che Tobia compie durante l’esilio degli Ebrei in Babilonia e Giuseppe d’Arimatea nei riguardi di Gesù, e che Antigone, nella Grecia classica, appellandosi alla legge della coscienza, porta ostinatamente a compimento contro la volontà di Creonte, che le proibisce la sepoltura del fratello Polinice. Il ritorno alla terra che ci accoglie, tipico della tradizione cristiana, ancor più assume valore nel tempo contemporaneo dominato da una tecnica e da una scienza che la terra presumono di dominare e soggiogare. Un tempo, il nostro, proprio di una società “post-mortale” perché tende a rimuovere la morte dalla coscienza del soggetto intento a cosmetizzare la propria esistenza, ad anestetizzare la propria quotidianità.

Un evento, la morte, decisivo per la vita non solo in quanto assolutamente ineludibile, ma perché produce senso e contribuisce a definire gerarchie di valori e priorità, a selezionare mezzi e stabilire fini, a vivere la vita come dono che ci è dato e possiamo offrire, a riconoscerla in tutta la sua profondità e durata, la vita nascente, la vita vivente, la vita morente. Seppellire i morti non implica solo il richiamo all’incombenza della fine , ma un implicito impegno a una elaborazione del “transito”, a una considerazione del passaggio in tutto il suo mistero, in tutti gli interrogativi che pone, in tutte le angosce e tormenti che suscita.

Al cospetto della privatizzazione della morte – comunque si muore soli – il rito della sepoltura, la celebrazione delle esequie, non solo assumono valenza pubblica, ma contribuiscono ad assegnare senso al non senso della fine, a resistere alla tentazione del nichilismo e della reificazione, della perdita di sé, ritrovando di fronte al morto una comune appartenenza al genere umano, il sentimento dell’“umana compagnia”. In acculturazione cristiana questo trova la propria forza nel mistero pasquale, in quell’alfa e omega che sono rappresentati dal Cristo, dalla sua morte e resurrezione. Da qui il rito della sepoltura non come atto conclusivo, espressione di un ordine sociale, di una liturgia consolatoria, ma come alimento di speranza e di fede nel ritorno del Risorto.
PAOLO CORSINI 22 mag 2015 00:00