Se son fiori moriranno, forse...
Mettete nella medesima stanza una madre e una figlia. Quest’ultima è un'adolescente, ma il suo sguardo, gravato da un'evidente fragilità, è quello di una bambina che alterna stati vegetativi a gioia e momenti di dolore, eppure gioca e ride, esclusivamente all’interno di uno spazio impenetrabile. O almeno così sembrano stare le cose. A vegliare su di lei, a lavarla, a starle accanto nei momenti più bui, c’è la madre, una presenza costante. Il suo dolore, per le condizioni della figlia, è palese, i suoi monologhi hanno picchi di disperazione che lacerano l’anima, ma c’è sempre una speranza, o meglio, un’autoconvinzione, uno stravolgimento della realtà che si manifesta attraverso un dialogo con una voce fuori campo proveniente dalla platea, fra gli spettatori. E’ una psichiatra? E’ un’amica? O la voce della coscienza? Stiamo comunque parlando di una piece, sebbene rappresenti la realtà quotidiana di molti nuclei familiari, più di quanto si possa immaginare. “Se son fiori moriranno” è il titolo dello spettacolo, inserito nella programmazione del Ctb, in scena sino al 9 febbraio, al teatro Mina Mezzadri - Santa Chiara (testo e regia Rosario Palazzolo con Simona Malato, Chiara Peritore e Delia Calò).
“Sabotare la realtà con l’immaginazione – spiega il regista – è l’unica alternativa che abbiamo, la sola che ci permette di spostare in avanti il limite del precipizio, ridisegnando continuamente il panorama, costruendo immaginari improbabili, trasfigurando la verità”. Sul palco, la rappresentazione di un’agonia lunga quindici anni, una stanza sprangata, un dolore che sbatte sulle pareti, che rimbalza sui corpi, che si allunga e si allarga continuamente. È il dolore di Adele, la madre: il destino ha voluto che la sua bambina, cadendo, sbattesse la testa, restando in uno stato vegetativo permanente. Rinchiusa in una stanza sbilenca, Adele cura freneticamente il corpo della sua bambina, nel frattempo cresciuto, lo tiene in vita, in attesa delle sue illusorie epifanie. Il pubblico è un comprimario silenzioso, che osserva e giudica, decide, e che a un certo punto avrà la responsabilità più acuminata di tutte, quella di acchiappare i personaggi e portarli altrove, fosse solo nelle proprie vite. Un’insolita indagine nel territorio dell’immaginazione, della sua potenza che, come scrive Palazzolo, “è una manna, una maledizione, un ordigno e una trappola, è ciò da cui non riusciamo a separarci, ciò che difendiamo con la nostra stessa vita gettando sul piatto pure quello che non abbiamo, purché rallenti l’inesorabilità degli eventi, esponendoci a un’agonia insopportabile, che impariamo a sopportare”.
E in tutto questo, per la madre, è meglio “staccare la spina”, cadendo nel precipizio di una realtà devastante o, forse, è meglio continuare a tenere ben stretto un cordone ombelicale che, seppur alienante, ti lascia la "certezza effimera" di una presenza a cui non puoi rinunciare?
