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Roma
15 mar 2018 08:39

Aldo Moro, quarant'anni fa il rapimento

Alle 9 del 16 marzo 1978 in via Fani, con il sequestro del leader democristiano, si apriva una delle pagine più buie della storia repubblicana su cui, ad oggi, non si è ancora arrivati alla verità

Mancano pochi minuti alle nove del mattino del 16 maro 1978 quando le due auto di scorta raggiungono l'abitazione di Aldo Moro nel quartiere Trionfale di Roma per portarlo a Montecitorio, dove di lì a poco si voterà la fiducia a un nuovo Governo Andreotti. Si tratta del primo esecutivo che, dopo lunghe trattative curate dallo stesso Moro, conterà sulla fiducia del partito Comunista di Enrico Berlinguer.

Aldo Moro, però, non arriverà mai alla Camera. In via Fani, all’incrocio con via Stresa, ad attenderlo c’è un commando di terroristi delle Brigate Rosse camuffato da ufficiali dell'aeronautica che apre immediatamente il fuoco e in pochi minuti lascia sull'asfalto i cadaveri dei cinque agenti portandosi via il politico leccese che era già stato per cinque volte presidente del Consiglio.  La notizia dell’agguato passa dai commissariati di zona al ministero dell'Interno e al suo titolare Francesco Cossiga, e poi nei corridoi di Montecitorio e al Quirinale, dove stanno giurando ministri e sottosegretari dell'esecutivo Andreotti. Poco dopo le dieci, a un'ora dopo la strage, i brigatisti rivendicano l'attentato alle sedi dell'Ansa di Milano e Roma, usando la famosa espressione "attacco al cuore dello Stato".

Alle 10:20 si riunisce anche il Governo con le rappresentanze dei Partiti. Lo sgomento e la concitazione inducono il Presidente della Camera Sandro Pertini ad invitare i rappresentanti delle forze politiche italiane a votare immediatamente la fiducia al Governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti.

Tutta l’Italia, nonostante fosse già da tempo nel pieno della stagione della tensione, è profondamente colpita da quanto avvenuto in via Fani, e si riversa nelle piazze, chiamato a raccolta da uno sciopero nazionale indetto all'improvviso dalle sigle sindacali.

I successivi 55 giorni saranno tra i più bui che il Paese abbia mani conosciuti, e trascorrono scorrono tra ricerche del covo in cui è tenuto prigioniero il politico, depistaggi e interventi dei servizi segreti, contatti tra politica e terroristi, e strazianti lettere di Moro ai familiari.

Anche Paolo VI, amico fraterno di Aldo Moro e pesantemente tocca per giungere al tragico, fa sentire la sua voce.

Il 21 aprile scrive alle Brigate Rosse. “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d'avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d'un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d'un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell'odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova”.

Il 9 maggio, infine, la sintesi: una telefonata a un assistente di Moro indica il luogo in cui si trova la Renault Quattro rossa dentro cui giace il cadavere del politico democristiano. Quel corpo crivellato di colpi e avvolto in una coperta rossa in via Caetani diventerà l'emblema di un tormentato periodo storico e segnerà uno spartiacque nella storia della Repubblica.

Ancora oggi, a quarant’anni dal rapimento, sulla vicenda non si è ancora giunti alla verità definitiva, come conferma anche la commissione interparlamentare d’inchiesta, presieduta nella scorsa legislatura dal Pd Fioroni. “La Commissione consegna dunque al Parlamento un lavoro che non è esaustivo, ma che rende molto più chiaro uno degli eventi più drammatici della storia della Repubblica italiana”: questo il passaggio finale della relazione.

15 mar 2018 08:39