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Milano
di STEFANO DE MARTIS 24 ott 2017 10:06

Referendum: rispondere in maniera seria

Uno dei più acuti storici e analisti della realtà politica italiana, e non solo, commenta i risultati delle consultazioni che si sono svolte domenica nelle due Regioni. “La politica - dice Paolo Pombeni - deve riprendere in mano il problema dell’ordinamento regionalistico nella Costituzione. Il centralismo non funziona. Allora è necessario riscrivere nuove regole”

Bisogna riaprire una grande riflessione sull’ordinamento regionalistico dello Stato, è questa la risposta alta che la politica deve dare al segnale forte che arriva dai referendum in Veneto e Lombardia. È quanto sostiene Paolo Pombeni, uno dei più acuti storici e analisti della realtà politica italiana e non solo, commentando i risultati delle consultazioni che si sono svolte domenica nelle due Regioni.

Pombeni, fra tanti altri titoli, è professore emerito di Storia dei sistemi politici europei e di Storia dell’ordine internazionale all’università di Bologna, città in cui vive. Ma è nato a Bolzano e ha vissuto molti anni a Trento, con cui ha mantenuto stretti legami (dal ’72, per dire, tiene la rubrica di analisi politica su “Vita Trentina”). Insomma, un personaggio che unisce alla competenza di studioso una conoscenza diretta e dall’interno della realtà del Nord e delle autonomie.

Al di là dei diversi esiti in Lombardia e in Vento, quale messaggio arriva da questa duplice consultazione che, comunque la si giudichi, è stata capace di mobilitare milioni dei lettori?
È il segnale, un segnale forte, che la gente non si fida più dello Stato centralista. Forse qualcuno non si aspettava che lo esprimesse in maniera così netta, ma questa è la realtà. Non si fida perché lo trova scarsamente efficiente e incapace di fornire ai cittadini servizi all’altezza. Però è anche un segnale che contiene una dose di egoismo: siccome i tempi sono difficili ognuno vuole tenere per sé le proprie risorse.

Dato per scontato che la quasi totalità dei partecipanti al voto avrebbe scelto il “sì”, il risultato che ci si attendeva di valutare era quello dell’affluenza alle urne. Come spiega la grande differenza tra il 57,2% del Veneto e il 38,2% della Lombardia? Spicca in particolare il dato di Milano, in cui l’affluenza è stata bassissima.
Dipende dalla diversa capacità di rapporto con lo Stato centrale e quindi dai benefici che si è in grado di ricavare da questo rapporto. Milano è una città molto forte e lo è anche la Lombardia. Non dimentichiamo poi gli scandali che hanno colpito, soprattutto nel settore della sanità, la stessa Regione Lombardia, e che hanno inevitabilmente ridotto la fiducia dei cittadini nei confronti di quell’istituzione.

Ci saranno ripercussioni sullo scenario politico nazionale?
Certamente. Innanzitutto è stato messo in campo un nuovo motivo di campagna elettorale. Già assistiamo al tentativo di trasferire il discorso della maggiore autonomia sul piano nazionale, estendendolo a tutte le Regioni anche se queste non hanno i conti a posto. Non è possibile perché lo vieta la Costituzione, ma diventa comunque un formidabile argomento di propaganda. E poi ci sarà il tentativo dei vincitori di alzare sempre più la posta, come sta già facendo Zaia con la richiesta del 90% delle risorse per il Veneto. Nessuno spiega, per esempio, come farà una Regione a subentrare all’amministrazione statale in una misura del genere. È un problema enorme, anche soltanto a livello di personale. Ma intanto si fa campagna elettorale.

Non le sembra paradossale che nell’era della globalizzazione riemergano quasi ovunque spinte localistiche? Naturalmente tra iniziative che si sono svolte nel rispetto delle regole costituzionali, come i due referendum, e quanto avviene altrove in maniera traumatica, c’è una differenza sostanziale. Ma quali sono le dinamiche profonde?

Sono due facce della stessa medaglia. La globalizzazione genera paura e ci si illude di difendersi barricandosi nel proprio castello.

E in Italia? La politica che risposta può dare alle istanze che emergono dal voto in Veneto e Lombardia? 
La politica deve rispondere in maniera seria, riprendendo in mano il problema dell’ordinamento regionalistico nella Costituzione. Bisogna afferrare il toro per le corna, inutile girare intorno al cuore della questione. Il centralismo non funziona. Allora è necessario aprire una grande fase di riflessione per riscrivere nuove regole. Un processo che sarà lungo, che dovrà prevedere delle tappe intermedie, ma che soprattutto richiederebbe una classe politica con il coraggio della visione di lungo periodo ed è quello che purtroppo ci manca.

Più nell’immediato, la Costituzione traccia un percorso complesso per le iniziative delle Regioni che sono nelle condizioni di chiedere ulteriori forme di autonomia. Oltre a Lombardia e Veneto, anche l’Emilia Romagna ha avviato la procedura fissata dall’articolo 116 della Carta che di per sé non prevede alcun referendum. Al termine del percorso, dopo la trattativa e l’intesa con il governo, è richiesta l’approvazione di una legge con procedura rafforzata. Le sembra realistico che tutto ciò possa avvenire entro questa legislatura ormai agli sgoccioli?
No. Peraltro non converrebbe neanche ai presidenti delle due Regioni dei referendum: nella prossima legislatura possono sperare di avere interlocutori governativi più favorevoli, se le elezioni premieranno le forze che li esprimono.

STEFANO DE MARTIS 24 ott 2017 10:06