Il Team dei Rifugiati ha vinto
Sarò sincero, non mi intendo moltissimo di sport. Però mi torna alla mente quel gesto di togliersi dal collo una medaglia d'argento e il confronto con questa immagine è davvero prepotente, potente. Io non sono migliore di te, tu non sei migliore di me, noi siamo grandi entrambi, siamo in grado di gioire perché la medaglia non è solo mia o solo tua, l'oro è nostro, perché ce lo siamo sudato e meritato. Ecco, come dicevo io non me ne intendo tanto, ma se si pensa allo sport come valore, io è a questi due ragazzi che penso. L'immagine più bella di queste Olimpiadi. Poi il mio pensiero vola nel ricordare la squadra olimpica dei rifugiati, alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Tokyo 2020, ha sfilato con la bandiera olimpica dopo la Grecia. Il Refugee Team è composto in tutto da 29 atleti, 11 donne e 18 uomini, 16 allenatori e 10 accompagnatori. Il suo acronimo è EOR, che sta per Equipe Olympique des Réfugiés, e tutti gli atleti gareggiano grazie a una borsa di studio del CIO, da 11 Stati di origine e 13 stati ospitanti – ovvero i Paesi dove hanno ottenuto lo status di rifugiato. Alle premiazioni suona l’inno delle Olimpiadi. Hanno già vinto la battaglia per la vita. Sono straordinari! Sono sopravvissuti a quello che noi neppure nei nostri peggiori incubi affrontiamo e non si sono arresi anzi appartengono a tutti noi, a tutta l'umanità. Queste Olimpiadi sono interessanti perché ci sono un sacco di imprevisti, come se sotto traccia fosse in atto un cambiamento profondo, una riscrittura di molte regole, messe in discussione perché percepite come non più in grado di dare ordine al mondo. È successo qualcosa che ha aperto una faglia da cui stanno entrando cose nuove, e lo sport non fa eccezione. La pandemia ha creato come la scuola #Labodif (Laboratorio delle differenze) insegna splendidamente una interruzione di flusso. Occasione propizia per azioni creative, individuali e collettive.
