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Brescia
di M.VENTURELLI 15 gen 2015 00:00

Melodia: comunicare con responsabilità in una società multietnica

Il presidente dell'Unione cattolica della stampa italiana intervistato su una questione timidamente avanzata in giorni in cui il mondo intero è sceso in piazza per la libertà di stampa "ferita" dei fatti parigini. In contesti sempre più complessi, questo l'interrogativo, giornalisti e mass media vivono in un "porto franco"?

È trascorsa già una settimana dai tragici fatti parigini (la strage al settimanale Charlie Hebdo e il sequestro nel supermercato kosher), eppure l’ondata di emozione, di condanna e la campagna di solidarietà a favore della libertà di stampa e del diritto di satira non accennano a diminuire.

I cartelli con la scritta “Je suis Charlie” continuano a campeggiare ovunque. Accanto al coro grande, immenso di chi ha fatto della difesa della libertà di informazione la propria bandiera, c’è stata qualche timida voce, anche scomoda e controcorrente per certi aspetti, che ha cercato di aprire un dibattito che a prima vista potrebbe sembrare tutto interno al mondo della comunicazione, ma che in realtà ha una portata più ampia. Senza venire meno al dovere della condanna “senza se e senza ma” della violenza, c’è anche chi ha cercato di inserire nel dibattito il tema del rapporto tra libertà di informazione e responsabilità del comunicatore.

In nome di questa libertà i giornalisti, e con loro tutti quelli che operano nel campo della comunicazione, possono veramente fare tutto? È questa la questione, che può sembrare scomoda in un momento in cui tutti si sono fatti paladini della libertà minacciata, che “Voce” ha affrontato anche con Andrea Melodia, presidente dell’Ucsi, l’Unione dei giornalistici cattolici italiani, colpito come tanti altri per come il mondo intero ha reagito all’attacco alla redazione di Charlie Hebdo.

Presidente: qual è il suo commento alla risposta che il mondo ha dato all’attacco alla libertà di informazione perpetrato a Parigi…

Se bisogna analizzare questo aspetto credo che non si possa essere che soddisfatti di come il mondo intero ha reagito all’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. Per la prima volta si sono visti milioni di persone in piazza colpite certo da un atto di terrorismo, ma anche dal fatto che con questo si sia voluto colpire un diritto altamente simbolico come quello all’informazione.

Quei fatti tragici hanno qualcosa da insegnare anche a chi ha fatto della comunicazione la propria professione?

Assolutamente sì. È ipocrita nascondere il fatto che dietro quei fatti tragici ci sta forse anche un po’ di leggerezza del mondo della comunicazione. Lungi da me l’intenzione di creare un rapporto diretto tra le vignette pubblicate, le campagna di comunicazione che il settimanale francese ha condotto e l’attentato di cui lo stesso è stato vittima. Stiamo parlando di due cose incommensurabili, che si pongono su livelli diversi, ma quello che è successo deve interpellare chi ha fatto della comunicazione la propria professione. Perché l’idea che debba esistere anche nel nostro lavoro un principio di responsabilità che sta alla base dell’etica della professione è fuori di dubbio. Purtroppo, però, credo di poter dire che non sempre questo ha guidato il nostro agire.

Nelle scorse settimane tante realtà, settimanali diocesani compresi, hanno aderito alla campagna nazionale “Le parole che uccidono”. A Parigi sono stati i giornalisti stessi a cadere vittime di parole che hanno scritto. Qual è il suo pensiero?

Penso che le parole non debbano uccidere chi le subisce come insulto, come era nelle intenzioni della campagna mediatica delle scorse settimane, né, tanto meno, chi le scrive. Il problema è che se nell’esercizio delle molteplici attività professionali connesse alla comunicazione non si antepone a tutto il già citato principio di responsabilità personale viene messo a rischio sia ogni forma di tutela nei confronti dei destinatari della comunicazione e, come purtroppo insegnano i fatti di Parigi, anche quella verso gli stessi comunicatori. Dobbiamo avere presente che il nostro pubblico non la pensa sempre necessariamente come noi, ha pensieri e sensibilità proprie. Il principio della tolleranza, del dialogo del confronto vanno sempre salvaguardati anche nella comunicazione. Questo purtroppo non sempre avviene. Nei giorni scorsi mi sono sentito solidale con i giornalisti di Charlie Hebdo e con quelli che hanno manifestato per la libertà di espressione perché si tratta di valori fondanti della nostra civiltà ormai acquisiti. Ma proprio perché così acquisiti rischiano anche di essere considerati come gli unici realmente importanti. Non dobbiamo invece scordarci, visto che è ampiamente dimostrato che le parole possono uccidere, che questi vanno esercitati nell’ambito di una responsabilità collettiva che deve essere fatta anche del rispetto di chi ha sensibilità e pensieri diverso dai nostri.

In questi giorni si è parlato tanto di libertà di informazione, di diritto di satira, etc. Oltre alla condanna per l’incredibile violenza che si è abbattuta sulla redazione del settimanale satirico francese, il mondo della comunicazione deve avviare una riflessione su come questo diritto deve essere esercitato?

Una riflessione esista già. È chiaro che in un momento così drammatico dal punto di vista emotivo chiunque vuole riaffermare fino in fondo il diritto alla libertà di espressione, acquisito dalla nostra civiltà. Dobbiamo però avere anche il coraggio di dire che tutto questo non basta, che come comunicatori forse non dedichiamo tempo sufficiente a valutare il fatto che la nostra opera finisce con l’incidere sul pensiero dei destinatari della comunicazione. Per questo sono convinto che gli strumenti e le modalità della comunicazione debbano trovare nel nostro Paese quell’attenzione che è riservata, pur con tanti limiti, ai processi formativi della scuola. Questo per mettere in grado chi svolge questa professione di confrontarsi alle esigenze di una società è ormai multetnica e che deve fondare le ragioni della sua esistenza nella convivenza pacifica tra pensieri e sensibilità diverse.

La libertà, il diritto di informazione esime il comunicatore dal prestare un’attenzione particolare per il peso che le sue parole possono avere?

Assolutamente no! Questa libertà, questo diritto devono essere sempre legati a doveri che non vanno sottovalutati, a partire da quello di avere sempre presente il ruolo di natura formativa che la nostra azione ha nei confronti della società. Avere presente questo e altri doveri non limita certo la nostra libertà di informazione, che è raggiunta quando si esercita un compito in modo professionale. Si tratta piuttosto di un problema di crescita personale all’interno di una società complessa come quella attuale. Non è più tempo di pensare alla libertà come qualcosa che riguarda soltanto un singolo individuo.

Lei è presidente dell’Unione dei giornalisti cattolici. A chi ha scelto di vivere questa professione alla luce di quell’aggettivo, cosa insegna la vicenda parigina?

Chi non ha vergogna ad affiancare l’aggettivo cattolico al sostantivo giornalista ha una responsabilità in più: quella di far capire che ciò che può apparire quasi ovvio nell’applicazione dei principi del cristianesimo, come il principio di carità, deve trasformarsi anche in una società laica in quel principio di convivenza necessario per vivere nel pieno rispetto reciproco. Tocca a chi vive l’attività giornalistica da cattolico creare le condizioni per un dialogo con il mondo secolarizzato per fare capire che i valori che professiamo hanno una validità universale.

Tutto questo può diventare oggetto di una formazione continua per i giornalista che ancora fatica a decollare?

Si, ci stiamo provando promuovendo una serie di proposte per la formazione continua dei giornalisti che vanno in questa direzione. Il problema è che quello della comunicazione è solo una piccola parte di un mondo più ampio e più complesso che a differenza del nostro, non avverte con la stessa urgenza il tema della formazione.
M.VENTURELLI 15 gen 2015 00:00