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Bolzano
di M. VENTURELLI 14 apr 2016 00:00

Migrazioni: perché quella nuova barriera al Brennero?

A poche ore dalla visita che papa Francesco all'isola di Lesbo, per portare la solidarietà alle migliaia di profughi lì stipati e a chi li accoglie, l'Europa discute sulla scelta del governo di Vienne. Intervista a Irene Argentiero, direttore de "Il segno", settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone

Nei giorni scorsi, al Brennero, l’Austria ha iniziato i lavori per la costruzione di una barriera per limitare, in caso di necessità, l’accesso di migranti provenienti dall’Italia. La struttura avrà una lunghezza di 250 metri e comprenderà l’autostrada, la strada statale e la ferrovia. Il governo di Vienna ha scelto questa strada perché, come molte altre realtà, guarda con occhio critico all’efficacia dell’accordo raggiunto nelle scorse settimane tra Unione europea e Turchia per la gestione dei flussi migratori che ora transitano sulla rotta balcanica. L’Austria teme che un fallimento dei citati accordi potrebbe riaprire la via italiana. Di qui la scelta di allestire al confine di stato quello che Vienna definisce “management di confine” per avere il minor impatto possibile sul transito di persone e merci, ma che di fatto è una vera e propria barriera. A poche ore dall’annuncio di Vienna di voler procedere con i lavori al Brennero sono arrivate anche gli appelli di papa Francesco a “rimuovere i muri”, non solo quelli in senso “figurato” ma anche quelli della “triste realtà”.

Barriera. La realizzazione di questa nuova barriera al valico del Brennero è guardata con attenzione da tutte quelle realtà che, appena al di qua del confine si occupano di accoglienza e di gestione della presenza di profughi e di richiedenti asilo. La conferma arriva da Irene Argentiero, direttore de “Il Segno”, il settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone. “Oggi – afferma la giornalista – è Vienna ad essere messa all’indice. Nessuno, però, dice del silenzio di tanti altri Paesi e dell’Europa nel suo insieme”. A Bolzano, però, nessuno vuole fare previsioni (anche perché l’esercizio è difficile) su quello che potrà accadere con un’eventuale ripresa degli sbarchi a Lampedusa. “Difficile immaginare – afferma ancora il direttore del settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone – che una ripresa della rotta italiana si traduca automaticamente in un aumento vertiginoso di profughi nelle nostre zone”. Meglio, dunque, continuare ad occuparsi dell’accoglienza e dell’accompagnamento dei richiedenti asilo già presenti.

Profughi. Ad oggi, infatti, sono più di 900 i profughi di attesa del riconoscimento dello status di rifugiato accolti in una quindicina di strutture sparse sull’intero territorio provinciale. Dieci sono gestite dalla Caritas e altre dall’associazione Volontarius che collaborano con la Provincia nella gestione di questa situazione. E le belle storie anche qui non mancano, soprattutto nei centri più piccoli dove l’accoglienza è divenuta, come ricorda la giornalista, prassi quotidiana. “Difficile valutare quello che potrà accadere di qui a due mesi – continua Irene Argentiero –. È chiaro che un arrivo incontrollato rischierebbe di trasformarci nella Lampedusa del nord”. Nei giorni scorsi Bolzano ha ospitato il ministro degli esteri austriaco Sebastian Kurz che ha affrontato il tema della gestione dei flussi di profughi e all’intensificazione dei controlli ai confini di Stato annunciati dall’Austria.

Motivazioni. Kurz ha ribadito le motivazioni che hanno portato Vienna a intraprendere la strategia del rigore. “Nel 2015 – ha affermato – abbiamo accolto 90mila persone, facendo il rapporto con la popolazione totale sarebbe come se l’Italia ne accogliesse 600mila L’Unione Europea deve mettere in sicurezza i confini esterni e con il contributo dell’Italia normalizzare la rotta mediterranea”. La tanto vituperata Provincia autonoma di Bolzano, ricorda ancora la giornalista, lo scorso anno ha raddoppiato i fondi per la cooperazione allo sviluppo, nella convinzione che un serio antidoto alle migrazioni di massa possa essere quello di aiutare la crescita di molti Paesi del sud del mondo, perché se non c’è alternativa alla guerra, molto, conclude il direttore de “Il Segno” si può fare per combattere la povertà che spinge milioni di persone a lasciare i loro Paesi.
M. VENTURELLI 14 apr 2016 00:00