lock forward back pause icon-master-sprites-04 volume grid-view list-view fb whatsapp tw gplus yt left right up down cloud sun
di ANDREA MELODIA 20 nov 2015 00:00

Dinanzi alla guerra siamo in una terra di mezzo

Il giornalista e il comunicatore davanti alla guerra si trovano potenzialmente in una terra di mezzo dalla quale si è obbligati ad uscire

La libertà di comunicare è indissolubilmente legata alla libertà di coscienza. Sappiamo bene quanto queste libertà siano state fonte di controversia nella storia, anche all’interno della Chiesa, e come ancora siano causa di tensioni ideologiche e di violenze nel mondo contemporaneo.

In questo quadro storico possiamo collocare una riflessione sulla informazione nella condizione di guerra, riflessione che si pone come drammatica necessità nel confronto in atto contro il terrorismo islamista. La libertà di coscienza e la libertà di comunicare, infatti, sono certamente conquiste irrinunciabili, e tuttavia come ogni tipo di libertà devono trovare equilibrio con un valore forse non altrettanto sviluppato nell’attuale grado di civilizzazione dell’Occidente, che è il dovere di responsabilità.

Potrebbe sembrare inutile una riflessione su libertà e doveri nelle condizioni attuali: in fondo non si può certo dire che la nostra informazione non sia schierata da una parte sola, contro i terroristi. Il problema semmai sono gli eccessi di questa parte, le confusioni tra vittime e carnefici nel mondo islamico. Eppure credo che accompagnare le nostre scelte con una riflessione razionale fornisca una profilassi mentale, una cura preventiva contro ogni confusione possibile, perché anche allo stato di guerra si arriva progressivamente, ed è tragico non prevenire il suo percorso.

Tutte queste questioni, libertà e doveri, sono sottoposte all’etica, che soprassiede al nostro discernimento e alle conseguenti decisioni di azione. Ma tutto questo ha anche una dimensione sociale, perché le libertà e le sue limitazioni, ma anche i doveri e i suoi superamenti, mescolandosi con gli interessi personali e collettivi al livello della società sono alla base delle politiche, delle norme di legge, perfino delle dichiarazioni di guerra; oppure, in una dimensione collettiva più ridotta, possono originare – in un esempio legato alla pratica dell’informazione – le linee editoriali di un giornale.

La libertà di coscienza in contrapposizione ai doveri pubblici o agli ordini ricevuti può generare atti di eroismo – la storia ne è piena, basta pensare ai grandi conflitti del secolo scorso – ma anche mostruosi errori. Anche il terrorismo è figlio di questi errori.

Il giornalista e il comunicatore davanti alla guerra si trovano potenzialmente in una terra di mezzo dalla quale si è obbligati ad uscire. La guerra infatti è sempre stata una condizione che tende a non ammettere distinzioni: o si sta da una parte o dall’altra, o si è eroi o traditori. Il singolo sarebbe tenuto a sottoporsi alla volontà collettiva.

Ma è davvero così? A mio giudizio la risposta è complessa. Esiste un livello superiore di coscienza che deve essere rispettato, e che potrebbe anche legittimare l’opposizione alle decisioni della collettività. Tuttavia se ciò non avviene credo che il principio di responsabilità debba indurre ad attribuire all’autorità democraticamente eletta e ai sentimenti maggioritari una larga dose di credito, perché lo stato di guerra è pericolo di vita, e davanti al pericolo di vita non sono ammessi sofismi, personalismi o vantaggi di parte, ma solo scelte e comportamenti essenziali.

Si tratta di una limitazione di libertà? Per il giornalista, si dovrebbe trattare solo di un supplemento di responsabilità. Quel senso di responsabilità che porta a considerare la professione come un servizio alla propria comunità e non come il soddisfacimento delle proprie personali convinzioni.

In sostanza, se è vero che il principio di equidistanza debba costituire quanto meno il punto di partenza che il giornalista è tenuto ad osservare nel raccontare ogni forma di conflitto, la prospettiva di guerra mi pare che imponga una forma di semplificazione essenziale. In una prima fase, fino a quando la guerra è solo temuta, bisogna lavorare obbligatoriamente per la pace, che è certamente l’obbiettivo migliore per il bene della società. Quando la guerra fosse scoppiata, di fronte alla concreta minaccia alla sopravvivenza, il punto di vista iniziale credo debba essere quello delle istituzioni democraticamente elette, e discostarsene del tutto sarebbe legittimo solo di fronte a una fortissima contrapposizione della coscienza.

In uno stato di guerra che coinvolge la propria comunità il giornalista deve dunque operare senza rinunciare alla volontà di pace e al discernimento, deve sapere che l’informazione è funzione di servizio orientata non al potere ma al bene pubblico, e aiutare la comunità a trovare unità, fiducia e coraggio: in condizioni di stress diffuso l’informazione deve farsi carico delle ansie collettive e operare per contenerle.

Inoltre non siamo mai autorizzati a fomentare l’odio verso gli avversari, neanche quando proprio loro vivono di odio. E dai giornalisti e editori cattolici è atteso un supplemento di consapevolezza e responsabilità: una informazione corretta e pacata è essenziale perché la lotta al terrorismo non si trasformi in una vera guerra di civiltà.
ANDREA MELODIA 20 nov 2015 00:00