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di GIACOMO CANOBBIO 17 gen 2019 08:15

È davvero cultura?

Dai mercatini, ai presepi, alle mostre di pittura, ai concorsi di poesia, ai saggi di musica, alle rappresentazioni teatrali, si registra un pullulare di iniziative, anche nei piccoli paesi, quasi una forma di riscatto di protagonismo popolare a fronte delle grandi manifestazioni artistiche

Dai mercatini, ai presepi, alle mostre di pittura, ai concorsi di poesia, ai saggi di musica, alle rappresentazioni teatrali, si registra un pullulare di iniziative, anche nei piccoli paesi, quasi una forma di riscatto di protagonismo popolare a fronte delle grandi manifestazioni artistiche, ai festival di filosofia, economia, teologia, letteratura, Bibbia. Sembra di assistere a un risveglio della cultura, un riappropriarsi delle capacità espressive, un desiderio di creatività immediata, senza pretese, quasi in miniatura, ma pur sempre manifestazione del bisogno di mostrare che la cultura non sta di casa solo nei grandi eventi. Questi, nella loro enfasi, appaiono destinati a poche élites, incapaci di raggiungere il popolo, che continua a custodire nel cuore stupore di fronte alle cose semplici, opera di persone conosciute, quasi specchio di come tutti vorrebbero essere. Ogni forma di espressione artistica riesce a catturare, tanto più se è vicina ai luoghi della vita. Non importa se non apparirà sul giornale, quanto piuttosto se riesce a distogliere, per un attimo, dalla pesantezza della vita quotidiana, a suscitare partecipazione, a far sentire protagonisti di un mondo ‘magico’. Ma tutto questo è veramente cultura? Il termine cultura è uno dei più ambigui che si trovi nella nostra lingua. Neppure nelle ricerche dotte si è giunti a precisarne il significato (ne sono stati individuati circa duecento). Si può tuttavia assumerne uno che prova a cogliere aspetti comunemente riconosciuti tra tutti quelli tentati. Cultura è sistema simbolico nel quale le persone pensano e costruiscono la loro esistenza. In tal senso, cultura è ambiente che modella le persone e che è, nello stesso tempo, modellato da queste. Cultura non è ‘altro’ dalla vita, benché trovi momenti espressivi che servono a rimarcare le dimensioni che essa, nel suo svolgimento ordinario, rischia di soffocare. Cultura è come un sussulto delle forze nascoste della vita, che ridonda poi sulla vita stessa restituendole la bellezza che gli avvenimenti possono appannare. Non è un caso che le manifestazioni “culturali” trovino spazio nelle feste o diventino occasioni di festa. Sono come interruzione dei ritmi ordinari per dare a questi un supplemento di senso. Appunto per questo l’attribuzione a esse dell’aggettivo “culturali” mantiene qualche pertinenza. Il problema che si pone attiene però all’efficacia che raggiungono: sono effettivamente capaci di introdurre bellezza nei ritmi della vita ordinaria? Suscitano emozioni, fanno nascere stupore, producono nostalgia di bellezza, ma riescono effettivamente a mutare la percezione che in genere i partecipanti hanno dell’esistenza? Di esse si parla, esprimendo impressioni, ricordando sentimenti provati, sperando di poterne gustare altre, ma restano quasi scampoli di vita altra, riti privi di efficacia per il domani. Nessuna meraviglia che così avvenga: gli esseri umani sono consumatori di esperienze, ma il metabolismo di esse rimane difficoltoso. A maggior ragione nel contesto attuale, nel quale i vorticosi processi della vita sociale diventano come mostri onnivori, che divorano in fretta ogni avvenimento, piccolo o grande che sia. La via per far diventare vera cultura le manifestazioni “culturali” non consiste ovviamente nel cancellare quelle popolari: significherebbe privare di creatività l’esistenza umana, rendendola più triste. La via sembra piuttosto quella di selezionare le manifestazioni culturali e privilegiare quelle che aiutano a pensare. Non per rendere pesanti anche i momenti di svago, bensì per renderli effettivamente cultura, cioè luoghi in cui si costruisce il sistema simbolico che modella l’esistenza. Non è una via facile, soprattutto perché in rapporto al pensiero si riscontra ritrosia. Sembra infatti che il pensare sia prassi che non ‘rende’, esclusiva di intellettuali che non capiscono la vita concreta. Se però si rinuncia a pensare, si cade in balia di chi pretende di pensare per tutti, con le conseguenze che la storia ci consegna.  

GIACOMO CANOBBIO 17 gen 2019 08:15