La cura di chi non vuole essere curato

Nella revisione delle mille condizioni nelle quali la cura si esprime, si colloca in uno spazio particolare l’impegno verso chi non vuole essere curato. E questo capita sia in ambito medico sia quando si potrebbe esercitare una cura nella vita di tutti i giorni, ma questa non è ben accolta. È una condizione dalle molte facce, perché tante sono le condizioni di sofferenza così grave per le quali la persona non è in grado nemmeno di cogliere la mano tesa, l’impegno psicologico, il desiderio di donare tempo e di non abbandonare.
Non è opportuno fare un catalogo delle possibili condizioni di rifiuto, ma desidero affrontarne solo alcune in particolare. È la persona che ha perso la speranza per il troppo dolore. È il caso del dolore cronico, che distrugge la vita perché non permette pause, nonostante l’impiego di farmaci analgesici. In questi casi la richiesta del suicidio assistito è una risposta che si potrebbe dire naturale; quasi mai chi fornisce le cure è passato attraverso la strada strettissima del dolore continuo, profondo, che si riflette sulla psiche, costringendo la persona colpita a rinchiudersi in sè senza speranza, se non quella di trovare la strada per la fine della tragedia, da soli o con l’aiuto della medicina. Ma il medico sapiente e generoso sa donare la propria vicinanza, senza parole, ma con un’intensità che si fa capire anche attraverso il silenzio. E che lo porta ad esserci sempre; chi è dominato dal dolore deve essere certo di una presenza senza interruzioni, con una costante vicinanza fatta di tenerezza e di ascolto. La persona colpita da un dolore psichico, quella, ad esempio, di chi ha perso un affetto, talvolta rifiuta la cura, perché la percepisce come inadeguata rispetto all’immensità della prova subita. Nessuno è ritenuto in grado di pronunciare una parola che permetterebbe di alleviare la solitudine e la disperazione. Pensiamo alla difficoltà di esercitare la cura verso le persone affette da una demenza, quando apparentemente non vi è una cura possibile; sono donne e uomini che percepiscono, anche nelle fasi avanzate della malattia, il senso di una cura che sa esprimersi attraverso il contatto fisico, la carezza dolce e lo sguardo sorridente. Pensiamo alla difficoltà di curare l’anziano affetto da molte malattie, che ritiene impossibile modificare una traiettoria di vita che, nella sua mente, è alla fine.
Molto spesso si sovrappone una condizione depressiva, per cui a nulla servono le cure mediche e, ancora meno, la vicinanza, l’accompagnamento. Talvolta è difficile impostare un rapporto incisivo, essere accettati dalle persone alle quali si vorrebbe donare il tempo di una cura; in molti casi questo fallimento, almeno iniziale, induce ad assumere atteggiamenti di chiusura o, all’opposto, di aggressività, nel tentativo di imporre la propria presenza, perché ritenuta “oggettivamente” positiva per l’altro. Questa crisi impedisce di continuare; si alzano muri, che poi restano, producendo aggressività reciproca. In questi frangenti, la tolleranza è atteggiamento irrinunciabile, premessa a qualsiasi ulteriore rapporto. I risultati compaiono subito, perché si interrompe una catena di aggressività più o meno conscia, e così si permette la ripresa di una relazione efficace.
Qualcuno potrebbe sostenere che in alcune situazioni la reazione intollerante è connaturata ai comportamenti umani; pur riconoscendo parzialmente questa valenza, sappiamo che la tolleranza è sorella della generosità e che quest’ultima è indispensabile per assumere atteggiamenti apparentemente non “naturali” (come potrebbe essere la tolleranza di fronte all’aggressività altrui). Queste dinamiche valgono sia nei rapporti di cura senza valenze tecniche sia nella cura medica di persone ammalate. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà che si incontrano nell’assumere un atteggiamento tollerante di fronte ai disturbi comportamentali delle persone affette da demenza, che spesso diventano gravemente disturbanti per l’equilibrio psichico di chi vive loro vicino. Infine, la tolleranza è amica della tenacia: permette di anteporre il raggiungimento di un obiettivo rispetto alla rinuncia indotta dalla fatica di stare vicino a chi rifiuta la cura. Tenacia e perseveranza, alleate della generosità, sono virtù che permettono di vincere la pigrizia e la tentazione dell’abbandono, atteggiamenti altrimenti diffusi quando l’atto di cura diventa faticoso sul piano pratico e psicologico.
