La fraternità nell'annuncio cristiano
Riproponiamo la lectio del vescovo Pierantonio Tremolada sulla fraternità pronunciata in occasione della mattinata di studio promossa il 23 novembre 2024 dal gruppo bresciano della Fondazione Centesimus Annus
Vorrei subito precisare la prospettiva nella quale mi pongo. La mia intenzione è quella di mostrare come una visione cristiana della fraternità abbia per sua natura una dimensione universale, includa cioè l’apertura a tutti, senza alcuna distinzione, La domanda a cui vorrei rispondere si potrebbe precisare così: cosa intende l’annuncio cristiano per fraternità? In che senso e in che modo questo annuncio può suonare come un appello rivolto anche ai non cristiani, ad ogni uomo e donna di buona volontà e ad ogni retta coscienza? In questa stessa prospettiva si è posto anche papa Francesco quando ha pensato all’enciclica Fratelli Tutti. “Pur avendo scritto questa enciclica a partire dalla mia convinzione cristiana – precisa – ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà" (FT, 6). Credo sia importante poter affermare che quanto pensiamo come cristiani circa la fraternità, non sia da considerare un insegnamento che riguarda soltanto noi. Il senso e il valore che le attribuiamo come pure le ragioni che la giustificano dovranno auspicabilmente creare una di felice sintonia con quanti onestamente si stanno interrogando sul senso e sul valore della vita e sulla forma che anche oggi è chiamata ad assume la convivenza sociale.
Un esempio di fraternità incarnata: Francesco d'Assisi
Prima di impegnarci in una riflessione che provi a tracciare il profilo della fraternità di cui parla il Vangelo, mi sembra fissare lo sguardo su una straordinaria figura della storia della Chiesa che di tale fraternità è stata un vera e propria incarnazione. Sto pensando a san Francesco d’Assisi. Mi limito a ricordare gli eventi che in questa prospettiva hanno segnato la sua vita: l’abbraccio del lebbroso, povero, segregato, disprezzato, con il quale, invece Francesco stabilisce un rapporto di totale comunione; la visita al sultano in epoca di crociate, che manifesta la chiara convinzione dell’uguaglianza tra i popoli, della comune vocazione alla pace, del rispetto reciproco e del dialogo come via a percorrere; la fondazione di una comunità i cui componenti dovevano essere chiamati frati, cioè appunto fratelli., e anche minori, cioè uguali tra loro ma nell’umiltà, piccoli, liberi da ogni forma di orgoglio e di ambizione, e poi poveri, distaccati da quei beni che corrompono il cuore e impediscono di guardare tutti con affetto e rispetto; il cantico delle creature, l’inno nel quale Francesco si sente spinto chiamare fratelli e sorelle il sole e la luna, il fuoco e l’acqua, tutte realtà che lo circondano, a cui si sente unito da un vincolo mistico, di ammirazione e di gratitudine; infine, la definizione che il poverello d’Assisi dava di se stesso, presentandosi come frate Francesco intendendo questo anzitutto nel senso di fratello di Gesù, il Cristo crocifisso, amabile redentore dell’umanità. Questa identificazione raggiunse il culmine nel 1224, quando ricevette le stigmate. È questo l’ultimo evento che dobbiamo ricordare, nella luce del quale in verità si devono rileggere tutti i precedenti. Per Francesco d’Assisi, la fraternità non era solo uno stile di vita, ma una concezione della vita, un modo di intenderla. Essa univa in lui l’essere e l’agire, il cuore, la mente, gli occhi e le mani. Ma questa fraternità proveniva dalla sua piena sintonia con il Signore della gloria, contemplato sulla croce e riconosciuto vivo per la potenza della sua risurrezione. L’accoglienza verso tutti, il servizio, l’umiltà, la povertà, la sofferenza accettata per amore, la meraviglia di fronte al creato, tutto veniva dalla comunione di Francesco con il suo Signore. Si sentiva unito a Cristo non solo come seguace, ma come fratello, condividendo il suo cammino di sacrificio e di redenzione.
La fraternità evangelica nell'insegnamento di Gesù
La testimonianza di san Francesco rinvia dunque a Gesù stesso. Per comprendere il senso cristiano della fraternità occorre dunque riferirsi a lui, al suo insegnamento e, più profondamente, alla rivelazione legata alla sua persona. La strada è quella della lettura dei Vangeli. Qui però ci attende una sorpresa. L’indagine delle ricorrenze del termine fratelli nei quattro Vangeli ci segnala un dato forse inatteso: ogni volta che Gesù fa uso di questa parola, si riferisce ai suoi discepoli o comunque a coloro che credono o crederanno in lui. Questa semplice considerazione sembrerebbe smentire la convinzione che abbiamo espresso in apertura della nostra riflessione. Di fraternità si dovrebbe dunque parlare, secondo l’insegnamento di Gesù, soltanto in riferimento ai cristiani. Il cerchio della fraternità verrebbe così drasticamente ristretto e perderebbe la sua dimensione universale. Una simile conclusione, tuttavia, non è corretta, e non rende ragione del vero pensiero di Gesù, poiché ne limita l’orizzonte. Per avere una visione adeguata del suo insegnamento sulla fraternità, occorre allargare lo spettro della ricerca e non limitarsi alle specifiche ricorrenze del termine fratelli. Lo sguardo va rivolto a tutto intero l’insegnamento dei Gesù. I testi allora diventerebbero numerosi. Dovendo qui limitare la riflessione, vorrei concentrarmi su un unico testo, che considero particolarmente illuminante. È lo stesso testo che papa Francesco ha scelto per ancorare la sua enciclica Fratelli Tutti alla rivelazione del Nuovo Testamento. Si tratta della parabola – cosiddetta – del buon samaritano (Lc 10,25-37). Non intendo riprendere qui l’ampio commento che l’enciclica propone su questo testo decisamente suggestivo. Mi preme concentrarmi su un punto, che considero cruciale per la riflessione riguardante il tema che stiamo affrontando. Vorrei far emergere l’insegnamento di Gesù che qui traspare in ordine alla dimensione universale della fraternità, mostrando come questa costituisca un elemento essenziale dell’annuncio evangelico. La parabola, potremmo dire, ha un suo vertice, una punta verso cui tende tutto ciò che precede e da cui poi deriva tutto ciò che segue. Questo vertice è costituito dalla compassione che il Samaritano prova davanti all’uomo ferito e abbandonato sul ciglio della strada. Quanto precede, nel racconto della parabola, crea volutamente un contrasto. Quel che accade al Samaritano, cioè la sua commozione, non accade al sacerdote e al levita, che vedono quello stesso uomo in pericolo di vita e passano oltre, tenendosi a distanza. Sono gli uomini del tempio, della religione, sono figli di Israele come l’uomo che vedono morente, ma per lui non provano nulla. Il loro atteggiamento mette ancor più in risalto ciò che invece prova il Samaritano verso un uomo che rappresenta per lui un perfetto sconosciuto, dal quale, secondo il comune sentire ebraico, doveva essere considerato uno straniero, un uomo di razza bastarda, da disprezzare cordialmente. Anche ciò che fa seguito alla commozione del Samaritano merita di essere sottolineato. Egli si ferma, si china su di lui, versa olio e vino sulle sue ferite, lo carica sul suo giumento, lo porta in albergo, lo assiste per un’intera notte, e infine raccomanda all’albergatore di non lasciargli mancare il necessario, facendosi carico di ogni spesa. Detto questo, è bene ora sostare sul termine con cui si definisce ciò che il Samaritano prova. Una commozione che attiva l’azione: si passa dagli occhi al cuore e alle mani. Abbiamo parlato di compassione o di commozione. Traduciamo così il verbo che qui viene utilizzato e che nella lingua greca originaria ha una valenza particolarmente intensa. Si tratta di un fortissimo moto interiore, qualcosa che sorge dal profondo in modo incontenibile e travolgente e spinge ad agire. L’immagine evocata è quella delle viscere che fremono, con un’allusione anche al grembo materno. Su questo punto vorrei concentrare l’attenzione. Ritengo che qui troviamo riassunto l’insegnamento di Gesù intende comunicare circa la fraternità nella sua valenza universale. Una domanda ci permette di proseguire nella nostra riflessione: che cosa sta dietro la compassione del Samaritano? O meglio, che cosa racchiude questo suo sentire profondo? Dovessimo provare a sviluppare ciò che viene espresso da una sola parola, cioè dal verbo delle viscere che fremono, che cosa potremmo dire? Potremo forse individuare aspetti diversi che intervengono a definire la fraternità universale, come se si trattasse di un poliedro con diverse facce? Nell’enciclica Fratelli Tutti, commentando questo punto specifico della parabola, cioè la commozione del Samaritano, papa Francesco parla di “una chiamata interiore, un appello che sorge nel profondo” e che viene ricondotto ultimamente all’amore (FT 101). “L’amore – scrive poi papa Francesco – implica qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali” (FT 94). Proprio qui andrebbe dunque rinvenuta l’essenza della fraternità, in un sentire interiore che porta a considerare l’altro come il prossimo, cioè il vicino – appunto, il fratello – di cui prendersi cura con affetto. Ma possiamo dire qualcosa di più a riguardo di questa essenza della fraternità? Possiamo immaginare che vi siamo come nascosti aspetti diversi, meritevoli di essere approfonditi? In risposta a questa domanda vorrei provare a compiere una ricerca in una prospettiva specificamente biblica, sulla base di una convinzione che formulerei così: ritengo si possa affermare che questa chiamata interiore di cui il Samaritano fa esperienza e a cui si può ricondurre ultimamente l’esperienza della fraternità sentirsi fratelli – possa essere interpretata come l’eco perenne dell’azione creatrice di Dio nel cuore di ogni uomo. Sarebbe – potremmo dire – la voce delle origini che continuamente risuona in ogni persona umana. Se dunque delle origini si tratta, sarà utile interrogare su questo punto le prime pagine del Libro della Genesi. Volendo descrivere in prospettiva sintetica il messaggio che ci giunge da questi testi circa la fraternità, credo possiamo parlare di un quadruplice riconoscimento che l’esperienza della fraternità porta necessariamente con sé. Le parole che lo precisano sono le seguenti: identità, dignità, relazione, mistero. Il Libro della Genesi nei primi suoi primi undici capitoli utilizza un linguaggio del tutto originale, secondo un genere letterario che potremmo definire sapienziale, ricco di simboli e assai suggestivo, che però domanda di essere adeguatamente interpretato. Proveremo a farlo.
Identità
Anzitutto la fraternità include il riconoscimento della singolare identità della persona umana. Ad questa identità allude il passo di Gen 2,7: “Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo”. L’immagine evocata nella prima parte di questo versetto è quella del vasaio (cfr. Ger 18), che dà forma alla creta e lo fa secondo un preciso modello. Il vasaio, infatti, ha bene in mente come il vaso dovrà essere. Così è dell’azione creatrice di Dio nei confronti dell’uomo. Quest’ultimo non decide di esistere e neppure determina da sé la propria identità. Egli non conosce il segreto della vita, che riceve per grazia da colui che lo fa esistere. Questo vuol dire la Bibbia quando parla di creazione. Occorre poi rilevare la valenza paradossale di questo atto creativo, così come viene presentato dal Libro della Genesi. L’uomo è plasmato dalla polvere, non propriamente dal fango come normalmente si intende. Chi scrive sta pensando a quella sabbia che si alza dal deserto roccioso del Negheb quando soffia il vento. La polvere così intesa appare come qualcosa che, per sua natura, risulta impossibile da plasmare. Un modo per dire che si tratta di un’azione non riconducibile ai canoni umani e che solo Dio è in grado di compiere. Si passa dalla inconsistenza alla forma, un modo forse per alludere a ciò che nella riflessione teologica verrà successivamente definito come il creare dal nulla (ex nihilo). Si aggiunge a ciò l’idea di connaturale fragilità che caratterizza l’uomo, il quale deve tutto se stesso a colui che lo fa esistere. Da qui l’intrinseco appello alla fiducia, che l’uomo sarà chiamato a nutrire nei confronti del suo Creatore. In un successivo passo del terzo capitolo del Libro della Genesi si accenna poi ad un particolare che nella nostra prospettiva appare rilevante. Si dice che “l'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi (Gen 3,20). L’uomo dà dunque un nome alla donna, compiendo un atto che sarà poi perpetuato. Generando Caino, il primo dei suoi figli che ha il proprio nome, Eva dirà: “Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gen 4,1). È dunque sempre il Signore che fa esistere colui inizia a vivere. La generazione appare così come la nuova forma che prende l’atto creativo di Dio e il nome che si riceve ricorda che l’identità del generato rimanda al pensiero del Creatore. Il libro dell’Apocalisse di san Giovanni, in un suggestivo passaggio, afferma che esiste un nome scritto su una pietra bianca già fissato da Dio nel momento della generazione di ogni persona, uomo o donna, un nome che verrà svelato e consegnato a ciascuno dal Cristo Redentore nell’incontro ultimo con il Dio dei viventi. “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve” (Ap 2,17). L’irriducibile singolarità di ogni persona umana, cioè la sua vera l’identità, affonda dunque le sue radici nel mistero stesso di Dio. Di ciò abbiamo tuttavia un riscontro evidente anche nell’esperienza umana: al nome di ciascuno (nome e cognome in verità) corrisponde la singolarità del volto, del profilo, della voce, del passo, dell’impronta digitale. È un dato a cui siamo abituati ma che ci deve sempre stupire. Il riconoscimento rispettoso di questa identità che potremmo definire originaria interviene a determinare l’esperienza della fraternità. Guardare all’altro come un fratello significa anzitutto avere coscienza della sua assoluta unicità, di cui il volto e il nome sono espressione, vincendo la pretesa di sapere di una persona ciò che in realtà non potrà mai esserci pienamente svelato.
Dignità
In secondo luogo, la vera fraternità porta in sé il riconoscimento dell’alta dignità della persona umana. Nel capitolo primo del Libro della Genesi, che è frutto di una diversa tradizione del racconto delle origini, troviamo un’espressione che merita di essere richiamata. Si tratta di un modo di presentare la persona umana in tutta la sua grandezza. Degli animali che vengono creati si afferma che essi prendono vita “secondo la loro specie”. Non così per l’uomo. Ecco la frase che ne qualifica l’identità secondo l’intenzione del Creatore: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”. Il pensiero appare chiaro: l’uomo è posto per grazia all’altezza di Dio, porta in sé ciò che è proprio dello stesso Creatore. Condividerà la sua sovranità sul mondo, attraverso la sua intelligenza; condividerà la sua potenza creatrice, attraverso la generazione; condividerà la piena soggettività che è propria di Dio, e la esprimerà nella libertà e nella capacità di decidere, A questo allude il termine immagine. Il secondo termine, somiglianza, sembra piuttosto evocare la tensione verso un obiettivo. Ciò che l’uomo è da sempre dovrà essere confermato da lui stesso. A quella immagine originaria egli dovrà progressivamente conformarsi, riconoscendo la propria condizione di creatura, accogliendola nella libertà, consentendo al suo Creatore di rivelargli il senso della vita, aderendo alla sua volontà e riservando a lui il diritto di determinare ciò che è bene e ciò che è male. Libertà e intelligenza intervengono a dare piena dignità a ciascuna persona umana. Dice bene l’enciclica Fratelli Tutti: “Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità” (FT 107)
Relazione
Un terzo riconoscimento che la fraternità suppone è quello della relazione come dimensione essenziale della persona umana. Qui ci viene in aiuto il passo di Gen 2,18. “Poi il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile". Voglio fargli un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18). La solitudine – dice il testo biblico riportando in modo suggestivo un pensiero dello stesso Signore Dio – non è un bene per l’uomo, non è secondo la verità del suo essere. È necessario che abbia un aiuto, per dare verità a se stesso, per essere realmente ciò che Dio ha desiderato per lui, per dare compimento alla sua identità di “un essere vivente”. Questo aiuto deve essergli simile, letteralmente alla sua altezza, cioè di pari dignità. Con più precisione, esplicitando pienamente il senso dell’espressione che troviamo nella lingua originaria del testo biblico, diremo che questo aiuto dovrà essere “all’altezza dei suoi occhi”, cioè dovrà essere di qualcuno con cui, a differenza degli stessi animali, l’uomo potrà scambiare lo sguardo, qualcuno da guardare e da cui essere guardato, scrutando le profondità che gli occhi lasciano intravedere. Se il volto, con il nome, evocano l’identità del soggetto umano, lo sguardo evoca la relazione. La donna, che è l’aiuto di cui si parla, si presenta perciò come il tipo dell’alterità, la figura emblematica del tu che permette all’ io di riconoscersi come tale. La relazione diventa così la forma essenziale dell’esperienza umana, la condizione indispensabile per dare verità al proprio essere umano. Giova anche qui citare la Fratelli Tutti: “La persona umana, con i suoi diritti inalienabili, è naturalmente aperta ai legami. Nella sua stessa radice abita la chiamata a trascendere se stessa nell’incontro con l’altro” (FT 111). La fraternità dà alla relazione interpersonale, costitutiva della persona umana, una forma del tutto singolare, che la porta alla piena espressione.
Mistero
Infine, ma non da ultimo, la fraternità domanda che si riconosca alla persona umana una dimensione di mistero. E forse è questo il riconoscimento più importante. Si tratta di una dimensione che risulta trasversale, che cioè soggiace, come un orizzonte di luce, a tutte e tre le realtà che intervengono a definire l’esperienza della fraternità, cioè l’identità, la dignità e la relazione. Dobbiamo rifarci per questo alla seconda parte del versetto del Libro della Genesi che abbiamo precedentemente citato: vi si legge che dopo aver plasmato l’uomo dalla polvere, “il Signore Dio soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). Questa frase è di una intensità straordinaria. Utilizzando un’immagine molto suggestiva si qui che Dio trasmette all’uomo il suo stesso respiro, il suo alito di vita, ciò che lo fa esiste come tale e che viene dal profondo del suo mistero. In forza di questo “alito o respiro” l’uomo diviene un “essere vivente”. Da colui che la possiede, la vita passa a colui che la riceve. Il Dio vivente fa esistere l’uomo vivente. Partecipando del mistero di Dio, l’uomo riconosce una dimensione di mistero anche in se stesso. Nell’incontro dei volti che avviene quando si vive l’esperienza della fraternità, la profondità degli sguardi ricorderà sempre che il cuore di ogni persona umana è insondabile, che il suo vero nome è segreto, che la sua identità ultima è custodita dall’amore del Creatore. Sin qui l’ascolto del Libro della Genesi. Possiamo ora tornare alla parabola del buon Samaritano. Se riprendiamo il punto che abbiamo considerato cruciale, cioè la compassione di questo straniero per l’uomo sconosciuto assalito dai briganti, possiamo meglio coglierne la portata. Occorre riconoscere che in questa commozione vi è qualcosa di indicibile. È più di un’emozione, più di un nobile sentimento. È una compassione che viene da lontano, dalle profondità più nascoste del soggetto umano, da quelle regioni dell’io che sono state raggiunte dall’alito originario del Creatore. Parliamo di una misteriosa energia si attiva nel cuore umano in forza della quale si percepisce contemporaneamente la singolare identità di ogni persona, la sua alta dignità, il suo bisogno di relazione ma soprattutto si fa esperienza della misteriosa forza di bene che in ogni coscienza retta suscita il Creatore, rendendola partecipe del suo santo mistero d’amore.
La fraternità evangelica e la persona di Gesù
A questo punto occorre fare un’ultima importante considerazione. Il verbo con cui si descrive in questa parabola la compassione del Samaritano si ritrova identico, nel Vangelo di Luca, riferito a Gesù nel racconto della risurrezione del figlio della vedova di Nain (Lc 7,13). Vi si legge che Gesù, davanti alla madre che in lacrime accompagna il figlio alla sepoltura, “si commosse”. Egli stesso vive ciò che racconta nella parabola del Samaritano. Gesù attingerebbe dunque alla sua personale esperienza. L’esegesi patristica ha volentieri identificato il Samaritano della parabola con il Cristo Redentore, che si piega sull’umanità ferita e restituisce la piena integrità. Si dovrebbe affermare, propriamente, che l’esperienza del buon Samaritano deriva da quella del Cristo. Potremmo dire che in modo inconsapevole questo straniero condivide il sentire del Figlio di Dio divenuto Salvatore del mondo. È quanto Gesù stesso sembra suggerirci: che anche uno straniero può partecipare del suo amore. Qui non si tratta infatti semplicemente di imitare un modello, ma piuttosto di condividere ciò che si sente. Il linguaggio adeguato è quello della partecipazione, della comunione, della identificazione. L’amore del Samaritano attinge all’amore di Cristo e l’amore di Cristo si rivela così come un amore la cui dimensione è universale. In questo amore si iscrive la fraternità che ogni uomo sente di dover nutrire per il suo simile, in nome della sua identità originaria, al di là di ogni differenza. La fraternità universale, che una visione cristiana della vita considera irrinunciabile, ha dunque la sua sorgente nell’atto creativo di Dio e trova nel Cristo redentore la sua espressione più alta e la sua rivelazione ultima. La lettura dei Vangeli ci conferma questa straordinaria verità: noi siamo fratelli perché il Figlio di Dio si è fatto fratello nostro. Si viene tutti creati, dunque, al fine di essere fratelli del Signore Gesù Cristo e in lui fratelli gli uni degli altri. Ciò che cambia è la consapevolezza. Ciò che non cambia è l’identità e la dignità.
La fraternitas
Essere fratelli – dice papa Francesco nella Fratelli tutti – è più dell’essere soci. La fraternitas è più della societas, che pure è chiamata a farsi civitas. Ma non ci si può fermare qui. Occorre proseguire e dichiarare che alla base della fraternitas c’è la caritas, cioè l’irradiazione misteriosa dell’amore di Cristo nei cuori umani. Qui sta l’essenza dell’annuncio cristiano circa la fraternità. Per questa caritas che si fa fraternitas, san Francesco bacia il lebbroso e visita il Sultano; Madre Teresa va alla ricerca degli abbandonati nelle strade di Calcutta; san Massimiliano Kolbe prende il posto di un suo compagno di lager nella camera della morte; Oscar Romero offre la vita in difesa del diritto dei poveri e Martin Luter King in difesa del diritto dei discriminati; san Paolo VI pronuncia all’ONU un’indimenticabile discorso contro la guerra; Beethoven compone l’inno alla gioia di sentirsi fratelli. Per questa stessa caritas che si fa fraternitas, il Mahatma Ghandi cade vittima della violenza che aveva sempre sempre rifiutata; Nelson Mandela accetta l’ingiustizia del carcere senza desiderare la vendetta; Izak Rabin paga con la vita il suo coraggioso tentativo di pacificazione. Molti altri andrebbero ricordati. Si può dunque essere credenti in Cristo o non credenti in lui, ma tutti si è in lui radicati, al di là della propria consapevolezza. L’abbraccio del Cristo Redentore raggiunge tutti indistintamente e nella potenza del suo Spirito sospinge i cuori verso la comunione fraterna e l’amicizia sociale. Possiamo allora riascoltare la parola che Gesù rivolse ai suoi discepoli allargandola all’intera umanità. Ora sappiamo che è possibile farlo e che questo era sicuramente il suo pensiero: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 18).