lock forward back pause icon-master-sprites-04 volume grid-view list-view fb whatsapp tw gplus yt left right up down cloud sun
di MARCO TRABUCCHI 16 lug 2025 15:27

La politica è in grado di curare?

L’interrogativo presente nel titolo descrive l’incertezza insita nell’argomento: chi ha responsabilità della cosa pubblica può avere una funzione curativa rispetto alle sofferenze di una comunità e dei singoli individui? Poiché non ho la cultura e la sensibilità dei grandi politici cattolici dei decenni scorsi, affronto la tematica partendo da alcune letture che le vicende della vita mi hanno fatto incontrare, riguardanti le azioni di alcuni sacerdoti durante la Resistenza. Alcuni, ma sono stati molti di più di quelli noti, hanno deciso di porre la propria vita personale e il proprio sacerdozio al servizio di persone bisognose di cure, delle crisi e delle difficoltà dei loro fedeli, coinvolti in battaglie che portavano morte, distruzioni, ingiustizie e offese alla dignità di uomini e donne. La loro scelta è stata, senza incertezze, quella di essere curanti del prossimo, per gli aspetti spirituali e pratici delle loro vite. È stata per molti una scelta “politica” dedicarsi, nelle giornate terribili di un sistema sociale in disfacimento, a cercare di tenere assieme le comunità, esposte senza protezione alle violenze di una vita senza regole. Hanno offerto, in questo modo, una cura “politica” delle loro comunità. Ho letto recentemente un libro sulle vicende di don Giuseppe Padovani, un prete dell’Alto Veronese che dalla sua parrocchia di Selva di Progno ha seguito le vicende della Resistenza su un ampio territorio, da Vicenza al Trentino.

Tanti altri sacerdoti hanno compiuto in quegli anni le stesse scelte: le nostre Alpi e Prealpi, dove si è combattuta la Resistenza, hanno visto l’impegno di molti di loro. Perché ho pensato al concetto di cura, leggendo la storia di don Padovani? Perché non ha smesso mai di essere prete, le cui cure erano prima di tutto rivolte all’anima delle persone che aveva intorno: parrocchiani, partigiani, fascisti e soldati tedeschi. Prima di chiedere la liberazione di un prigioniero, evitando che fosse fucilato, si preoccupava di confessarlo, a qualsiasi costo. Talvolta, leggendo il libro, capita di essere impazienti di fronte alla richiesta di confessare i condannati, quasi fosse una perdita di tempo rispetto al salvare una vita. Don Padovani aveva, invece, ben chiaro che la cura dell’anima viene prima delle preoccupazioni per la salvezza delle popolazioni dalle aggressioni del nemico o dell’impegno per il loro sostentamento in tempi di fame senza tregua. Qualcuno, sul piano teorico, potrebbe trovare “normale” questo atteggiamento sacerdotale, ma nella realtà della vita e delle tragedie umane non tutti riescono a essere fedeli a quanto hanno sperato di riuscire a fare prima di essere messi alla prova.

Ma nel libro si comprende che don Padovani non aveva classifiche tra i suoi impegni di cura; tutto il suo lavoro aveva lo stesso scopo: la cura delle persone fragili, a rischio di subire violenze, talvolta senza speranza. Don Padovani si preoccupa della condizione degli appartenenti alle bande partigiane, mai molto amichevoli nei suoi confronti; vivevano lontani dalle famiglie, per tanti la famiglia rimaneva un ricordo nostalgico e un preoccupante punto interrogativo. Aggiunge che erano privi del conforto soprannaturale e della Luce che avrebbe potuto risollevare i loro cuori e illuminare le loro menti turbate. Enrico Mattei ricorda che era un grande conforto quando in montagna il raggruppamento partigiano veniva visitato dal cappellano. Apparentemente quelli erano tempi speciali, ma quante volte anche oggi incontriamo persone che hanno bisogno della nostra cura, che vuol dire accompagnamento nella disperazione, protezione nelle strade difficili, supporto concreto per arrivare a sera. Per don Padovani è stata certamente una scelta “politica”, ma forse lo è anche per noi. Peraltro, in aggiunta abbiamo il dovere di rendere nobile questo termine.

MARCO TRABUCCHI 16 lug 2025 15:27