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Brescia
di L. ZANARDINI 21 apr 2016 00:00

Quella carezza di Dio

Consolare gli afflitti. Nel terzo incontro (martedì 26 aprile alle 18 alla Poliambulanza), promosso dall'Università Cattolica sulle opere di misericordia spirituale, suor Giusy Stevanin, da 18 anni in servizio all’Hospice, racconta la sua testimonianza

Il dolore mette a dura prova il corpo, martella lo spirito e sconquassa il cuore di chi è ammalato. A questo si aggiunge la sensazione tutta umana di sentirsi inutili, di sentirsi un peso per gli altri e per la società. Negli ultimi anni le cure palliative hanno fatto passi da gigante, ma da sole non possono bastare; se non si accompagnano con “lo stare con” e con il “prendersi cura di” rischiano di non essere efficaci.

E così dall’Hospice Domus Salutis che per molti rappresenta l’anticamera della morte arriva una lezione quotidiana di vita, di speranza e di umanità, ma i primi a trarne beneficio sono proprio gli operatori. “Nell’estrema prova sono maestri di vita. Mi comunicano anche quanto sia creativo il contatto con il dolore e con la morte. Mi danno tanto. Questo ambiente di sofferenza – racconta suor Giusy Stevanin – mi ha insegnato a capire cos’è la mia vita e a maturare una lettura diversa della mia esistenza. I malati e i loro familiari che vivono un percorso di fatica e di malattia mi insegnano a tenermi in piedi. La dignità di chi è consapevole che il tempo si stringe mi colpisce e mi fa pensare spesso alla morte. Così cerco di vivere bene l’oggi e di fare tesoro della quotidianità”.

L’Hospice è un ambiente in cui ci si prende cura della persona nella sua globalità. L’obiettivo è proporre delle cure palliative per migliorare il percorso di vita del paziente. Prendersi cura di tutta la persona, non solo a livello fisico, ma anche psicologico e spirituale. La struttura nata dal carisma delle Ancelle della Carità accoglie, oggi, 30 ospiti ammalati di tumore o con altre patologie in fase avanzata: “Cerchiamo di offrire loro un modo dignitoso di andare incontro alla morte. È questa la nostra missione, è questo il nostro servizio”. Non è facile alleviare le sofferenze. “Siamo in grado di farlo? Non sempre”. Non mancano i momenti di sconforto e di abbandono, perché “a volte mi viene voglia di scappare. Mi ritorna alla mente la frase (‘sto morendo’) di mia madre ammalata di tumore, ma resto lì per asciugare le lacrime”. Non servono molte parole, anzi il silenzio è la via maestra: “Pensi di dire la parola giusta, ma questa va bene per te, non per lui. Bisogna essere consolatori con gli occhi, con le mani, con la vita. Una persona la consoli solo se la prendi in carico come persona, fermandoti con lei: è importante esserci, avere una presenza fisica, umana e spirituale. Poi è fondamentale ascoltare per percepire quello che sta succedendo alla persona che hai di fronte”. Presenza, ascolto e piccoli gesti. Bisogna regalare amore e tenerezza, perché, come ha confidato Mario (il nome è di fantasia) agli infermieri, “i vostri gesti, una carezza e un abbraccio, mi fanno meglio di una iniezione”. “La persona così si sente capita e amata. Scopri che la rabbia e l’aggressività diventano un modo per chiedere aiuto. Capisci davvero – continua suor Giusy – come è importante la gestualità. Il malato e il familiare hanno bisogno di sentire che doni loro del tempo. E così anche tu, medico, infermiere o volontario (formato e motivato) scopri di essere importante come persona”.

Il dolore e l’eutanasia. Se la ricerca a tutti i costi del benessere cerca di allontanare l’altra faccia della medaglia, la sofferenza, il dolore e la morte, all’Hospice non si parla di eutanasia. “È il dolore che ti fa chiedere l’eutanasia, ma oggi possiamo ridurre il grado di sofferenza fisica. Dopo solo due giorni di terapia del dolore, gli ospiti dicono ‘a casa mi sarei sparato...’”. In un questionario somministrato su scala nazionale a pazienti e familiari dei malati terminali, nessuno ha chiesto l’eutanasia, solo due famigliari hanno sottolineato che non sopportavano vedere il proprio caro in quelle condizioni. “L’eutanasia attiva è un atto di aggressione, una vita troncata con violenza. La persona va accompagnata con dignità, tenerezza e misericordia… Resta la sofferenza interiore, perché ti rendi conto che stai morendo; anche chi ha un’esperienza di fede, prova un forte disagio. Cerchiamo di aiutarli a tirare fuori il grido di dolore che portano dentro”.

Il miracolo della conversione del cuore. “L’ammalato alla fine fa i conti con se stesso, con gli altri e con Dio (l’Assoluto); i familiari si fermano a riflettere, anche loro, sulla propria vita, con gli altri componenti della famiglia e con l’Assoluto. Facciamo esperienza di consolazione per consolare: abbiamo bisogno di essere consolati da chi sta attorno ma soprattutto da chi sta sopra, perché senza lo Spirito non si fa nulla. E con l’unzione degli infermi tocchiamo con mano la compassione di Dio per l’uomo: lo sguardo della malattia nell’orizzonte della misericordia di Dio che si fa consolatore (‘Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò’)”.
L. ZANARDINI 21 apr 2016 00:00