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Gavardo
di MASSIMO VENTURELLI 08 giu 2018 12:57 Ultimo aggiornamento 08 giu 2018 10:57

Il progetto più bello di don Lorenzo

Don Lorenzo Bacchetta, quarant'anni di Gavardo, è uno dei tre sacerdoti che saranno ordinati domani in Cattedrale da mons. Tremolada. La testimonianza dell'amico Mauro Bresciani

Don Lorenzo Bacchetta (il secondo da sinistra nella foto), della parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo di Gavardo, è originario di Grignasco (Novara). Ultimo di quattro figli, è nato il 22 luglio 1977. All’età di sette anni incontra l’esperienza scout, diventandone capo nel 1997 e formatore dei capi scout dal 2001. Nel 1996 consegue la maturità scientifica al Liceo Fermi di Salò; intraprende gli studi di ingegneria per l’Ambiente e il Territorio. A un esame dalla laurea comincia a lavorare presso una società pubblica della Valle Sabbia, prima con uno stage e poi con incarichi di sempre maggiore responsabilità. È del 2010 la scelta di iniziare il percorso per il diaconato permanente; l’anno successivo si iscrive alla facoltà di scienze religiose. Nel maggio dello stesso anno matura la decisione di lasciare il lavoro per entrare in Seminario. In questi anni ha prestato servizio nell’Unità pastorale della Valgrigna (Esine, Berzo, Bienno, Plemo e Prestine, 2014-15), è stato prefetto in Propedeutica (2015-16); l’anno successivo ha affiancato a questo servizio quello presso la parrocchia di San Bartolomeo in città. Nel 2017-2018 è stato diacono a Villanuova sul Clisi.

Don Lorenzo, la tua biografia racconta di un cammino particolare verso il sacerdozio…

Sì, sono entrato in Seminario a 36 anni, dopo un’esperienza lavorativa di una decina d’anni in un’azienda pubblica con un ruolo di coordinatore e responsabile del settore tecnico. È stata un’esperienza importante, che insieme ad altre hanno segnato il mio cammino. Al di là della mia famiglia, che non smetterò mai di ringraziare, nella mia vita c’è stata anche l’esperienza dello scoutismo. Si tratta di una pagina molto importante nel mio percorso umano. Una pagina iniziata ancora da ragazzo, più di 30 anni fa, e poi portata avanti sino al momento di entrare in Seminario. Mi sono occupato anche di formazione dei giovani capi scout, e anche questo è stato un ambito che mi ha donato molto più di quello che sono riuscito a offrire e che continua ancora ad arricchirmi. Il mio cammino verso il Seminario è stato dal punto di vista temporale sicuramente anomalo rispetto a quello di tanti altri giovani, ma reso uguale a quello di don Luca e don Alex, che saranno ordinati con me, dal fatto che tutti abbiamo accettato di seguire le vie che il Signore ci ha indicato.

Vocazione è uno di quei termini che suona un po’ datato… Storie come la tua possono aiutare a fare comprendere che, invece, è qualcosa di straordinariamente attuale, che può attraversare la vita dei giovani di oggi?

Se penso a un modo nuovo, a un’immagine, a una sensazione per raccontare con parole nuove cosa sia stata per me la vocazione, non trovo di meglio che descriverla come la progressiva capacità di percepire che i passi che si stanno facendo diventano sempre più efficaci, solidi, consistenti, realmente fondati sulle poche cose che contano: l’amore, il Signore. Credo che parlare di vocazione ai giovani chieda di concentrarsi un po’ di più su questo aspetto e di chiedere a loro di rispondere alla domanda: “Dove voglio mettere il mio piede?”. Come giovani facciamo tante esperienze, appoggiamo i nostri piedi in tanti posti, ma pochi sono quelli in grado di sostenerci. Magari si tratta di esperienze che appaiono anche strutturate, ma che alla prova dei fatti si rivelano inconsistenti, incapaci di sostenere. La vocazione, dunque, è prendere progressivamente coscienza che ci sono terreni su cui, meglio di tutti gli altri, posso poggiare il mio piede. L’amen che il Signore ci chiede di pronunciare rappresenta proprio questa solidità, questa certezza.

Eppure pronunciare questo amen, scegliere la strada del definitivo è per tanti giovani un passaggio ostico. Perché?

Ci sono tanti aspetti che fanno apparire questo passaggio difficile, quasi una vetta ardua da scalare. Il primo, sicuramente il più semplice da comprendere, è la convinzione che compiere una scelta “per sempre” rappresenti un impoverimento, un rinunciare a qualcosa… Forse la molteplicità delle esperienze che vengono proposte ai giovani induce a pensare che abbracciarne una sola sia troppo poco. C’è poi il fatto che i giovani, forse, non sono più abituati a vedere il bello, il “perché sì” di una scelta definitiva, preoccupati, come sembrano, di dover giustificare sempre i “no”. Serve uno sforzo per passare dalla giustificazione del “no” alla affermazione della bellezza del “sì.” Quella vocazionale deve essere una pastorale della bellezza del sì.

Incide su questa paura anche il timore della fatica che un “per sempre” porta con sé?

Forse sì. Eppure la fatica è una componente essenziale che chi vuole diventare uomo deve affrontare. Obbliga a guardare alle cose nella loro verità, a discernere tra i pesi che devono essere necessariamente portati e quelli che possono essere abbandonati perché non fanno parte del bagaglio che serve. La fatica pone nella necessità di togliere filtri e maschere che si hanno nei confronti dell’altro.

Il faticare insieme è importante. La crisi delle vocazioni, che non è solo quella del sacerdozio, è figlia della fatica del camminare insieme, dell’incapacità di guardarsi negli occhi quando si è stanchi. La fatica, poi, chiede di imparare a chiedere aiuto, di capire che l’altro ha bisogno di aiuto, anche se non lo chiede.

Il Vescovo, in un recente incontro in Seminario, ha consegnato una sorta di mandato a tutti i suoi sacerdoti: uscire dagli ambienti rassicuranti per andare a incontrare chi sembra lontano. Quale effetto fa a su un giovane che si appresta a intraprendere la vita sacerdotale questo invito?

Per me è una prospettiva rassicurante. Il prete deve muoversi, e più ancora del pastore deve essere come il cane da pastore che corre senza sosta per tenere assieme il gregge e recuperare anche quelle pecore che per mille motivi si sono allontanate. Per questo è importante che come preti andiamo a incontrare i giovani, e più in generale le persone, là dove vivono. La Chiesa in uscita non consiste nell’andare fuori per portare dentro ma, come insegna papa Francesco, è stare fuori perché è proprio lì che si incontrano le persone.

Non riusciremo ad arrivare ovunque, così come non potremo lasciare sguarniti quelli che sono i nostri ambienti, ma dobbiamo fare le due cose: stare nei nostri ambienti per incontrare chi c’è ma non sottrarci dall’uscire per incontrare chi sta altrove… Se ci pensiamo è esattamente quello che ha fatto Gesù.

Ci sono comunità che vi aspettano: come vivete queste grandi attese su di voi?

Le attese che ho trovato nella comunità che ho servito nel corso di quest’ultimo anno non sono state espressione del bisogno di grandi proposte, ma piuttosto del desiderio di essere accompagnati, di trovare persone capaci di ascoltare, di dare risposte sensate, ma anche di tacere, quando queste risposte sembrano mancare. Ho trovato persone che chiedono al sacerdote, al diacono di condividere un tratto del loro cammino, delle loro fatiche e delle loro gioie.

Ai bambini del catechismo, facendo tesoro di quanto ho percepito dalla comunità che mi ha accolto, ho detto che i cristiani devono avere orecchie sempre aperte, occhi sempre attenti e cuore spalancato. Infatti ogni parola ha un peso e senso, ogni volto è importante e mette in comunicazione il nostro cuore con quello di chi incontriamo sul nostro cammino.

Oltretutto la stagione in cui la comunità si affidava in tutto e per tutto ai sacerdoti appartiene al passato, e i laici sanno benissimo come essere protagonisti nelle loro comunità.

Don Lorenzo Bacchetta, originario di Grignasco, è nato nel 1977 e viene deala parrocchia di Gavardo. Dopo il diploma di maturità scientifica, nel 1996 è studente di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, fino ad un esame dalla fine, poi comincia a lavorare presso una società dei comuni e della Comunità Montana di Valle Sabbia come cartografo e tecnico del Sistema Informativo Territoriale, poi Responsabile dell’Area Tecnica, che si occupa dei servizi di innovazione tecnologica per una quarantina comuni dell’Est della provincia di Brescia e di ciò che riguarda i settori urbanistica, territorio, catasto, sportelli digitali e infrastrutture tecnologiche. Nel 2010 comincia il percorso per il diaconato permanente, nel 2011 inizia la facoltà di scienze religiose. Nel maggio 2013 si licenzia dal lavoro e nel settembre 2013 entra in seminario. Nel 2015 si laurea in scienze religiose con una tesi in Antropologia Teologica sul teologo russo S. N. Bulgàkov. In seminario presta servizio nell’UP della Valgrigna, come Prefetto in propedeutica, presso la Parrocchia di San Bartolomeo in città, Diacono a Villanuova sul Clisi. Appassionato di montagna, ciclismo e sport in generale, di cucina e di lettura.

Dicono di lui: il mio amico Lorenzo diventa prete

Questo è il ritratto che Mauro Bresciani fa di don Lorenzo Bacchetta: “Conosco Lorenzo (per tutti noi Lorenz) da quando nel 1997 entrò come capo nel gruppo scout di Gavardo, io ero un esploratore all'ultimo anno e lui un capo alle prime armi. Assieme ai suoi due fratelli si può dire che abbia salvato in quegli anni il nostro gruppo dalla chiusura, ma ha fatto molto di più. Ci ha portato uno stile, una fedeltà al metodo scout pensato da Baden Powell, che noi invece vivevamo molto annacquato. Ci ha portato relazioni significative, competenza, intenzionalità educativa, amore per la natura e il suo Creatore.

All'inizio non eravamo proprio amici, uno era capo, l'altro un ragazzo, un po' di anni di differenza, ma il rapporto era fraterno, ci si scherzava, ascoltava, si collaborava in tante cose, si cresceva assieme, ciascuno nel proprio ruolo, ma con un occhio e un orecchio orientati anche a sentire, o a cogliere, come stesse l'altro.Poi separati leggermente i nostri percorsi perchè io passai nel gruppo più grande, non si faceva più attività assieme, ma la voglia di cercarsi, confrontarsi, ascoltarsi e sapere come stesse l'altro, quella è rimasta e si è rafforzata, finchè, piano piano, è diventata amicizia, che ci ha fatto vivere con grandissima gioia e affiatamento, quasi una intesa perfetta, una sacco di esperienze, prima negli scout, poi in montagna, e sempre nelle rispettive vite.

Credo che nella vita non ci sia mai la fine di un percorso, forse può esserci “un fine” ma non amo pensare ad una fine; nello scoutismo tutti sanno che la strada è fatta per chi parte, e se arriva, questo non è mai un traguardo, ma si arriva sempre per ripartire. Ogni volta che piantiamo la tenda, sappiamo che più avanti c'era un posto più bello, un luogo sconosciuto, dove nessuno è mai stato, che è per ognuno la casa più sua; e ogni mattina si riparte per raggiungerlo. E arrivati alla meta, si riparte per ritornare a casa, alla vita, con più entusiasmo.

Può sembrare che diventare sacerdote sia il termine di un percorso, o la fine di un certo modo “normale”, comune, di vivere la vita, ma per Lorenzo so che non è così.

Sicuramente cambieranno alcune cose, non riuscirà più ad andare spesso come vorrebbe in bicicletta e in montagna, ma questo momento è solo un passaggio, una evoluzione del suo percorso di vita, che Lorenzo sta vivendo da moltissimi anni; una vocazione matura e maturata con grande responsabilità, ma sempre vissuta concretamente nella sua vita, anche prima di entrare in seminario. Il suo stile di vita non sta per cambiare poi così radicalmente; io non ci vedo così tante differenze rispetto a quello che conoscevo prima.

Lorenzo ha vissuto a lungo nel mondo, ha studiato tanto. Ha lavorato, è stato caricato di responsabilità, se ne è assunte tante, ha sempre risposto “Eccomi”, ha cercato di creare un buon clima sul posto di lavoro, collaborazione e fiducia, ed ha lasciato di se un buon ricordo. Ha fatto il capo scout per una vita, lo ha fatto bene, c'è chi lo cerca ancora adesso perchè rimane un riferimento non solo per la Fede, ma per la competenza, le conoscenze, la fantasia, lo stile.

Ha incontrato tante persone, non le ha solamente viste passare, ma le ha incontrate veramente, le ha ascoltate, consigliate, aiutate, guidate, formate.In sostanza, credo che la principale caratteristica che ne farà un ottimo sacerdote sia il fatto che ha vissuto ampiamente il mondo, lo conosce a fondo, in tante sfaccettature, conosce la gente, la ha incontrata, fedeli, atei, indecisi, conosce  il mondo del lavoro, il mondo associativo, delle istituzioni. Conosce la Vita nel mondo, non solamente quella della Chiesa, degli oratori, dei grest, le sacrestie, i seminari.

Altra caratteristica è che nel suo stile di essenzialità ha sempre badato al sodo anche nella Fede; essa è innanzi tutto una relazione d'amore con un Dio che si fa presente con la Parola, e si manifesta con Gesù. Lorenzo ha sempre rimarcato questa cosa e l'ha sempre vissuta in prima persona; poi vengono anche le celebrazioni, i riti, le tradizioni, le cerimonie, … nella misura in cui servono ad avvicinare e far crescere nel rapporto con Dio.

Un augurio che vorrei fargli, e che può essere pubblico, è di avere la possibilità, nel suo servizio, di poter vivere di tanto in tanto, ma con costanza, nella sua comunità e con i suoi compagni, la bellezza della Natura e della Strada.

Far provare ai suoi fratelli e compagni di vita la bellezza di essere pellegrino, di “mettere i propri piedi su strade percorse da altri – come Giuseppe, come Maria, come Francesco, come Peppino; mettere i propri piedi dove un Altro ha messo prima i suoi”.

MASSIMO VENTURELLI 08 giu 2018 12:57 Ultimo aggiornamento 08 giu 2018 10:57