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Brescia
di +LUCIANO MONARI 05 feb 2017 12:24

Il volto dell'altro

Il testo della Lectio Magistralis sul tema "Il volto dell'altro" tenuta venerdì sera dal vescovo Luciano Monari nel Salone Vanvitelliano in Palazzo Loggia

“Il volto dell’altro” è il tema che la Confraternita dei Santi Faustino e Giovita ha scelto per il programma di manifestazioni predisposte per la festa patronale della città. Di seguito il testo della Lectio Magistralis  tenuta venerdì sera dal vescovo Luciano Monari nel Salone Vanvitelliano in Palazzo Loggia.

Dai ricordi di scuola ci portiamo dietro l’immagine di Diogene che usciva in pieno giorno con una lanterna accesa e a chi gli chiedeva il perché di quel comportamento rispondeva: “Cerco l’uomo.” In quest’immagine riconosciamo la nostra condizione: uomini e tuttavia sempre alla ricerca della nostra umanità che non è un possesso scontato ma una conquista difficile e appassionante. Certo, alla domanda “chi è l’uomo?” si può rispondere con una semplice definizione dicendo che l’uomo è un animale politico, o che è un animale ragionevole, o che è un animale capace di sorridere, o che è una scimmia nuda… ma anche data una definizione corretta, saremmo solo all’inizio della ricerca. Quando prendiamo coscienza di noi stessi o entriamo in un vero rapporto con gli altri, ci rendiamo conto di quale mondo complesso sia il cuore dell’uomo con pensieri, idee, sentimenti, emozioni, decisioni, valori... Soprattutto comprendiamo che un concetto generale, per quanto utile, non è in grado di cogliere davvero il senso di un’esistenza umana. L’uomo di Neanderthal, l’eroe dell’Iliade, l’amante appassionato del romanticismo, l’informatico universalmente connesso di oggi, tutti appartengono alla famiglia umana; ma chi può pensare che il loro modo di realizzare la propria umanità sia identico? O che le differenze siano solo superficiali e irrilevanti? Solo una visione concreta e storica, che giunga fino al vissuto della persona può soddisfare e diventare feconda.

Ma c’è anche un altro problema a cui bisogna accennare. Nel modo in cui l’uomo contemporaneo pensa se stesso e cerca di costruire se stesso è prepotente il bisogno di ‘realizzare se stesso’. Possiamo descriverlo così: “Io sono un individuo unico, diverso da tutti gli altri; possiedo un certo numero di qualità e sono spinto da un certo numero di desideri. La realizzazione della mia vita consiste nel compimento delle mie qualità in modo da soddisfare il maggior numero di desideri o perlomeno i desideri che mi appaiono più importanti. Se riesco a raggiungere questi obiettivi, mi sento realizzato; se gli obiettivi che mi propongo, i desideri che mi spingono non trovano riscontro nella mia esperienza, mi sento ‘frustrato’ e ho la percezione di vedere sciupata la mia vita, o perlomeno incompiuta.” Da questa concezione, spesso implicita ma ben presente nella coscienza, nasce la percezione di tutta una serie di ‘diritti’ che ci sentiamo di poter accampare di fronte agli altri e che riguardano le condizioni concrete che ci permettono di ‘realizzare noi stessi’. Ho il diritto di realizzare me stesso; quindi ho il diritto a tutte quelle condizioni di vita che mi permettono di realizzare me stesso. Purtroppo è difficile che le condizioni fisiche, psicologiche, sociali e culturali nelle quali mi trovo a vivere corrispondano del tutto ai miei desideri: il mondo non è stato fatto sulla mia misura, per servire alla mia realizzazione. Le vie di uscita, allora, sono soprattutto due: la prima è quella di ridurre i desideri in modo di non trovarsi ad avere desideri non realizzati: è la via realistica dello stoicismo e quella radicale del buddismo che insegnano a controllare o addirittura a sopprimere i desideri considerandoli sorgente di inevitabili sofferenze. L’impressione, però, è che oggi la preferenza della nostra società si rivolga a un’altra soluzione che consiste in quello che Pascal chiamava il ‘divertimento’ e cioè l’occupazione della coscienza con contenuti banali ma emotivamente intensi, in modo da non rendersi conto della ‘miseria’ di questa vita e poter veleggiare fino a che l’arco biologico della vita non sia giunto al porto e il problema sia cancellato dalla morte. La sola cosa che ci consola – scriveva Pascal – è il divertimento; e tuttavia il divertimento costituisce la nostra miseria più grande.”

Dietro a questo modo di presentare le cose è implicita una scelta che vale la pena esprimere e di fronte alla quale bisogna prendere posizione: quello che ho delineato è la visione di una singola persona che considera il problema della sua realizzazione come un problema squisitamente individuale. E’ quindi inevitabile domandarci: la relazione con gli altri è essenziale o opzionale rispetto al compimento della mia esistenza personale? Aveva ragione Seneca quando diceva: “La frequentazione di molte persone è dannosa… torno a casa più avido, più ambizioso, più dissoluto…. proprio per essere stato in mezzo agli uomini”? o è vero il contrario e cioè che solo attraverso il rapporto con gli altri l’uomo acquista e custodisce il senso vero della sua identità e può maturare verso forme di umanità più profonde e più complete? Credo che questa seconda prospettiva sia quella corretta. Il bambino riceve la sua vita da altri; appena nato cerca qualcosa fuori di lui che lo possa nutrire e quindi mantenere in vita; prima ancora di poter camminare e parlare, esplora il mondo che lo circonda con i piedi, con le mani, con la bocca. Prende coscienza della sua identità poco alla volta, proprio distinguendo se stesso da ciò che gli sta di fronte. L’uomo vive sempre di fronte all’altro; e questo ‘altro’ assume tre forme, tre ‘volti’ complementari: la forma del mondo, la forma dell’altra persona, la forma di Dio. Vivendo in modo equilibrato e vitale queste tre dimensioni che l’uomo riesce a costruirsi un equilibrio umano di vita.

  Il mondo materiale, anzitutto, la natura. La si può incontrare in diversi modi. Anzitutto come materiale da utilizzare per i propri fini: un bosco diventa allora un volume di legname da tagliare e sfruttare; il valore di un campo si misura dalla possibilità di utilizzo e quindi di rendita; il mare è considerato una riserva alimentare o un’opportunità di commercio; la montagna è una riserva di minerali utili; e così via. Questa considerazione della natura coglie un aspetto vero della realtà che non possiamo certo dimenticare: la vita economica, la tecnologia si giocano su questo livello e l’uomo vivrebbe male senza economia e senza tecnologia. Ma si tratta solo di uno degli approcci possibili.

Lo scienziato ‘puro’ si accosta anch’egli alla natura; non tende però al suo sfruttamento, ma alla sua conoscenza; ai suoi occhi il bosco costituisce un insieme straordinario di forme di vita che si sviluppano con caratteristiche proprie e si relazionano a vicenda; studiare questa fioritura di vita è un impulso naturale e incoercibile dell’uomo: permette di comprendere meglio l’ambiente in cui siamo inseriti e apprezzarne meglio la grandezza, la bellezza, l’ordine, l’armonia. La conoscenza della natura è una delle imprese più ammirevoli che l’uomo ha condotto nei secoli.

Ma anche l’approccio scientifico, pur prezioso e fecondo, non esaurisce le possibilità d’incontro dell’uomo con la natura: c’è anche un aspetto originario di reciprocità che pone l’uomo e la natura in relazione prima di ogni ‘oggettivazione’ della natura stessa nella forma della conoscenza o dello sfruttamento. Come è noto, Leopardi considerava la natura matrigna, cioè nutrice dell’uomo ma indifferente a lui. Così dice la Natura all’Islandese che, cercando di fuggirla, le era inopinatamente capitato addosso: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual che si sia mezzo, io non me n’avvengo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto e vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tal cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.”  Natura estranea all’umanità dell’uomo, quindi, indifferente. Eppure, leggiamo quello stupendo idillio che è ‘Alla luna’…:

O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, nè cangia stile,

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l'affanno duri!

Che cosa ci sta a fare la luna in un componimento come questo? Il tema dell’idillio è il ricordo dell’angoscia passata e il sollievo che questo ricordo, nonostante tutto, produce in chi può avere ancora davanti a sé un lungo futuro; magari il presente continua a essere tribolato, ma una piccola, preziosa riserva di consolazione rimane fin che c’è spazio per la speranza. Ripeto allora la domanda: che cosa c’entra la luna con un tema come questo? Perché Leopardi non ha fatto semplicemente un soliloquio, una meditazione personale, come gli accade di fare in altre occasioni? che cosa cambia il dialogo con la luna? Perché il poeta si rivolge a lei? Perché in lei trova un ‘altro’ di fronte al quale i suoi sentimenti - l’angoscia del passato, la tribolazione nel presente, la speranza per il futuro - acquistano in evidenza, intensità, forza di suggestione: l’amarezza del pianto che sale agli occhi (alle ‘luci’) del poeta è espressa molto meglio, con maggiore sobrietà, attraverso il volto della luna che appare velato e incerto. Il cuore, bisognoso di un supplemento di speranza, lo trova nella contemplazione della luna che sembra piegarsi sulla selva per rischiararla. Se Leopardi avesse semplicemente rimuginato ed espresso i suoi sentimenti, il risultato non sarebbe stato lo stesso; forse l’angoscia sarebbe apparsa anche più profonda, mentre la consolazione non sarebbe stata altrettanto efficace.

È vero che a una considerazione oggettiva la luna è semplicemente un brullo corpo pietroso, inerte e inconsapevole. Ma è altrettanto vero che parlare alla luna è già un iniziale superamento della propria solitudine; significa collocare la propria, relativamente ‘piccola’ angoscia privata entro il mondo esterno grande e misterioso. Non ha parole, la luna, per rispondere alla parola del poeta; non ha nemmeno emozioni per fare eco ai suoi sentimenti. Ma può dare avvio alla liberazione dall’isolamento permettendo di elaborare la sofferenza e diventarne, in questo modo, padrone, non schiavo.

La natura attorno a noi ha una funzione terapeutica; se custodiamo la relazione con lei – non solo come materiale da usare, non solo come oggetto da conoscere, ma come un ‘altro’ cui rapportare la nostra esperienza, diventiamo interiormente più sani, più capaci di portare il peso della vita. Allora l’indirizzo iniziale dell’idillio: ‘o graziosa luna’ dice sì la bellezza di una luna piena in un cielo sereno; ma dirà anche un riferimento alla grazia, cioè al dono che la luna, la natura rappresenta per l’uomo. E’ già un primo passo per uscire da se stessi.

 Più importante, però, e davvero decisivo è il rapporto che egli riesce a stabilire con gli altri. L’uomo, è stato detto, è un animale ‘politico’, che può vivere umanamente solo insieme agli altri. Dal cacciatore dell’età della pietra, che solo operando in gruppo può affrontare prede importanti, fino al ricercatore contemporaneo, che solo acquisendo il patrimonio delle scoperte fatte da altri può progredire verso scoperte nuove, l’uomo ha sempre cercato la vicinanza, l’aiuto, la collaborazione, il confronto con l’altro. La complementarità sessuale, necessaria per la procreazione e quindi per l’esistenza stessa della stirpe umana è il primo, fondamentale luogo dell’incontro con l’altro. Ma il linguaggio, le istituzioni sociali e politiche, le imprese economiche, la coltivazione della terra, la produzione di manufatti utili, l’arte e la letteratura, la riflessione filosofica, le tradizioni religiose, le forme concrete dell’amicizia, i prodotti infiniti della tecnologia… sono tutte realtà prodotte dagli altri, che l’individuo umano dovrà imparare a conoscere e a trattare se vuole vivere in pienezza la sua umanità; se vuole giungere a dare anche lui creativamente un contributo alla vita comune.  

 Anche per il rapporto con l’altro valgono i tre livelli che abbiamo ricordato sopra: il livello dell’uso, quello della conoscenza, quello della relazione interpersonale. Nella collaborazione sperimentiamo la crescita di possibilità che ci viene dall’operare insieme. Nella conoscenza impariamo a rispettare la integralità dell’altro, al di là dei vantaggi che ne possiamo trarre. Nel rapporto interpersonale siamo noi stessi coinvolti nella relazione e ci comprendiamo in modo nuovo proprio perché ci mettiamo seriamente in gioco. Allora ci rendiamo conto che c’è un tesoro infinito da scoprire, quello della reciprocità delle coscienze, degli affetti; quello della condivisione dei valori. Questo accade anzitutto nell’esperienza dell’amicizia. Stiamo bene con gli amici; se davanti agli estranei stiamo ‘sulle nostre’ come si dice e cioè manteniamo una cauta riserva e non ci esponiamo del tutto, davanti agli amici questa riserva si scioglie progressivamente e scopriamo la gioia di poter essere noi stessi, di essere accettati e apprezzati anche con i nostri limiti. L’amicizia apre delle brecce nelle nostre autodifese; nei confronti dell’amico non abbiamo bisogno di nasconderci. Come aveva insegnato la volpe al Piccolo Principe: “Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere nella tana; il tuo mi farà uscire fuori, come fosse una musica.” È di Agostino l’affermazione che In quibuslibet rebus humanis nihil est homini amicum sine homine amico. “In ogni situazione umana nulla ci è amico senza una persona amica.” (Ep. 130, 4) E’ esperienza comune che una sofferenza condivisa pesa meno e che viceversa ogni gioia condivisa diventa più grande. Ma sant’Agostino vuole dire qualcosa di più; vuol dire che il volto del mondo ci appare più bello quando sperimentiamo di avere un amico; il mondo stesso, con la sue leggi inflessibili, ci diventa amico; lo accogliamo più volentieri e vi operiamo con maggiore speranza e libertà. Il mondo mi si presenta col volto affidabile dell’amico; la lealtà del volto amico mi permette di credere nella fidatezza del mondo. Tra l’altro questo è uno dei motivi per cui l’amicizia è anche un fatto politico.

 Ma l’amicizia può aversi solo con poche persone perché richiede tantissimo tempo e un impegno grande di energie psichiche. Bisogna allora allargare l’attenzione a un altro aspetto della relazione interpersonale, quello dell’amore. L’amore ha due dimensioni complementari che si sostengono e si arricchiscono a vicenda: la prima è quella che, di fronte all’esistenza dell’altro, dice: “è bello che tu viva!”, pone cioè un giudizio di valore positivo sull’esistenza dell’altro; la seconda è quella che completa questo primo giudizio speculativo trasformandolo in una decisione pratica: “Io voglio che tu viva!” Non è possibile, infatti, dare seriamente un giudizio di benevolenza se non ne scaturisce un impegno effettivo di beneficenza, cioè di azione concreta che favorisca la vita dell’altro.

La parabola del Buon Samaritano ci racconta di un uomo ferito e di tre passanti che s’imbattono in lui; due continuano la loro strada convinti che la condizione di quel ferito non li riguardi; uno si ferma perché “ne ebbe compassione.” La parabola suppone dunque che la compassione non sia un sentimento scontato perché due passanti su tre non lo provano; e non perché siano persone malvage o per natura insensibili. Gesù ha scelto apposta due figure socialmente rispettate, religiosamente impegnate come un sacerdote e un levita; se questi non si fermano non è per cattiveria, ma perché non riescono a costruire nella loro coscienza un giudizio del tipo: “La condizione di questa persona ferita ti riguarda.” Ma come: mi riguarda? È un mio parente? Un conoscente? Un amico? Un religioso? Perché dovrebbe riguardarmi? La risposta corretta suona evidentemente così: ti riguarda perché è semplicemente un uomo! Altre eventuali qualità personali si possono aggiungere, ma il fondamento della responsabilità è già posto: quello è un uomo!

 Proprio per suscitare questa risposta Gesù fa passare per quella strada fatidica un Samaritano, cioè un estraneo. Questi, mosso dalla compassione, supera tutte le distanze e ‘si fa vicino’ al ferito, gli si fa prossimo. Questo movimento contiene un giudizio implicito che potremmo svolgere così: “Quell’uomo è ferito, sta per morire; se non faccio qualcosa può darsi che sia spacciato. No; non voglio che muoia; la sua vita ha senso e sarebbe imperdonabile non soccorrerla.” Ma a questo punto nasce una domanda: da dove proviene questo giudizio? Come fa il Samaritano a emetterlo? Non sa niente del ferito: non sa se sia ricco o povero, saggio o stupido, buono o cattivo, amico o ostile… Non sa niente; eppure proclama che la vita di quell’uomo è un valore. Vuol dire che nel suo cuore è presente un’evidenza: “Ogni persona umana, per il solo fatto di esistere come uomo, costituisce un valore da rispettare e da proteggere.”

 Ci chiediamo: qual è stato l’effetto dei diversi comportamenti sulla vita delle persone - del sacerdote, del levita e del Samaritano? Come sono usciti da questo evento? Perché non c’è dubbio: quelle persone, dopo la scelta che hanno fatto, non sono le stesse di prima. La scelta li ha segnati, poco o tanto, perché nessun atto umano è del tutto neutrale. Ogni parola che diciamo, ogni azione che compiamo o che omettiamo, ogni relazione che costruiamo o che spezziamo contribuisce a costruire il nostro ‘io’; o meglio: contribuisce a costruire il nostro io se è una parola o un’azione buona (si definisce ‘buona’ proprio per questo); ma contribuisce a distruggere il nostro ‘io’ se è un’azione cattiva (si definisce ‘cattiva’ proprio per questo). Ora, nel racconto della parabola così come Gesù l’ha raccontata, non c’è dubbio: sacerdote e levita escono dall’incontro ‘meno’ uomini perché non hanno riconosciuto un volto umano e non hanno percepito in quel volto un appello che era rivolto a loro. Viceversa il Samaritano che, partendo da una condizione originaria di distanza dal ferito, gli si è fatto vicino e se ne è preso cura, lui, il Samaritano, esce dalla prova ‘più’ uomo. La sensibilità che ha mostrato nei confronti di un ferito si iscrive nella sua coscienza e la rende più ‘umana’ perché più sensibile al valore di ogni esistenza umana.

Naturalmente, quello che abbiamo davanti è un singolo evento e un evento singolo non decide di una vita. Per maturare un giudizio sulle persone dovremmo considerare tutti gli eventi, di questo o di altro tipo, che possono verificarsi nella loro esistenza, ma fin d’ora abbiamo qualche piccolo tesoro da custodire. Anzitutto la consapevolezza che siamo uomini perché siamo nati da un seme umano; ma che diventiamo realmente uomini a seconda che il nostro comportamento sia più o meno ‘umano’ nel corso della vita. In secondo luogo appare chiaro che si diventa ‘umani’ nella misura in cui ci si accosta all’altro riconoscendo in lui, nel suo volto, un valore originario, che non dipende da meriti speciali ma dal solo fatto di esistere come persona umana: più riconosciamo l’uomo nell’altro, più diventiamo umani noi stessi. E viceversa, l’incapacità di riconoscere nell’altro l’uomo – la dignità, il valore che ineriscono a ogni persona umana – questo rifiuto diminuisce il livello di umanità dei nostri pensieri, sentimenti, di noi stessi. Che l’uomo possa diventare disumano non c’è purtroppo bisogno di dimostrarlo; ciò che ci sfugge o che ci vogliamo nascondere è che questa ‘disumanità’ è la somma di una serie di piccole scelte disumane che noi facciamo spesso con leggerezza, a volta addirittura inconsapevolmente, nella vita di ogni giorno. La disattenzione (spesso determinata dagli interessi personali), la ripetizione dei luoghi comuni e quindi delle banalità come forma di (pseudo)pensiero, il rifiuto di verificare le proprie opinioni nel confronto leale, l’irresponsabilità per cui non si fa nessun conto degli effetti che le nostre decisioni hanno sulla vita e la felicità degli altri, la moltiplicazione delle pretese e il rifiuto del sacrificio di sé per il bene di tutti, tutti questi comportamenti offuscano la chiarezza su noi stessi e segnano la nostra coscienza con una insensibilità non umana. Spesso non ce ne accorgiamo perché la maggior parte della vita passa tra abitudini, scelte banali, navigazione di piccolo cabotaggio. Ma il nostro patrimonio di umanità inevitabilmente si arricchisce o si assottiglia.

 Dopo il gesto generoso compiuto verso il ferito, il Samaritano avrà altre occasioni di incontro con situazioni di debolezza; e in quelle occasioni dovrà rinnovare la sua ‘compassione’ e porre nuovi atti di amore, di solidarietà se vuole che il suo cammino di umanizzazione progredisca. Viceversa il sacerdote e il levita dovranno recuperare con gesti di amore una sensibilità umana che hanno soffocato. Ma la strada più efficace sarebbe quella della consapevolezza della loro colpa. Debbono piangere sul fatto di non aver riconosciuto un uomo nelle membra insanguinate del ferito; debbono chiedersi con sofferenza autentica: “Come ho potuto lasciare morire una persona senza fare niente per salvarla?” Solo attraverso un pentimento sincero, anche il peccato, anche l’errore possono diventare la base solida necessaria per spiccare un salto. Se invece dovesse prevalere il desiderio di giustificare se stessi, l’istinto di razionalizzazione; se diranno a se stessi che hanno fatto bene a non fermarsi perché quel ferito era solo un estraneo, allora sacerdote e levita finiranno per spegnere la loro umanità con una indifferenza mortale, che solo la grazia di Dio potrà a fatica redimere.

Forse questa è una delle consapevolezze di cui abbiamo oggi più bisogno: ogni azione che decidiamo di compiere ci rende più umani o mano umani – cioè più o meno intelligenti, più o meno responsabili, più o meno buoni; a seconda che la decisione presa sia intelligente o stupida, responsabile o irresponsabile; buona o cattiva. L’illusione che sia possibile ‘lasciarsi vivere’ e che questo disimpegno non alteri la nostra quota di umanità è appunto un’illusione. È vero che non basta un’azione cattiva per rovinare un’esistenza; è vero che nel tran tran della vita quotidiana, la maggior parte delle situazioni non esige da noi un quoziente elevato di bontà ma si accontenta di una buona educazione. Ma ci sono momenti in cui c’è da scegliere tra una disonestà seducente e un’onestà ardua: in queste situazioni di alternativa viene a galla la vera stoffa della persona. Qui ha rilevanza quel cammino di educazione di sé che è stato compiuto (o che non è stato compiuto) lentamente e faticosamente nel tempo. Per poter funzionare, la società ha bisogno di un numero elevato di persone responsabili e buone, che abbiamo maturato e consolidato una sensibilità umana di fronte al volto dell’altro.

Mi rimane da accennare alla terza dimensione del volto dell’altro, quella del volto di Dio. Prendo allora un testo dall’inizio del libro di Ezechiele. Ezechiele è di famiglia sacerdotale ed è stato esiliato in Babilonia al tempo della prima deportazione (nel 597 a.C.). Qui in Babilonia, quindi in terra straniera e pagana, ha una visione nella quale gli appare la gloria di Dio, cioè la presenza gloriosa, luminosa, potente, incomparabile di Dio stesso. Davanti a questa rivelazione il profeta è colpito da un senso di paura e di rispetto: “Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno [cioè di Dio] che parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare». A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito… Ma tu, figlio dell’uomo, non li temere, non avere paura delle loro parole. Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni; ma tu non temere le loro parole, non t’impressionino le loro facce: sono una genìa di ribelli… Ecco, io… ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli». Uno spirito mi sollevò e mi portò via; io me ne andai triste e con l’animo sconvolto, mentre la mano del Signore pesava su di me. Giunsi dai deportati di Tel-Abìb, che abitano lungo il fiume Chebar, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito.” Questo il testo che si trova all’inizio del libro di Ezechiele.

Che cosa accade nell’esistenza dell’uomo quando s’incontra con il Tu di Dio? Secondo Buber la caratteristica di Dio come soggetto della relazione con l’uomo è che Dio è e rimane sempre un ‘Tu’; non può mai essere trasformato in un ‘Egli/Esso’; non può mai essere cosificato e trasformato in un oggetto. È significativo che Buber, traduttore della Bibbia in tedesco, dovendo tradurre il misterioso tetragramma che non si può pronunciare (le quattro consonanti: y-h-w-h) abbia scelto di usare il pronome personale: ‘Du’. Dio è essenzialmente ‘Tu’, il grande ‘tu’ dell’uomo perché se l’uomo diventa umano quando incontra il tu dell’altro, tutti gli incontri reali e possibili coi diversi ‘tu’ umani hanno la loro sintesi, il loro culmine, nell’incontro con il ‘Tu’ trascendente di Dio.

Vediamo allora Ezechiele che, davanti all’impressionante rivelazione della gloria di Dio, rimane a terra, come schiacciato. E udiamo Dio che gli dice: “Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare.” Dio non può, non vuole parlare con un volto rivolto a terra. L’uomo Ezechiele è ‘quasi un nulla’ davanti alla gloria di Dio, eppure Dio vuole che Ezechiele gli stia di fronte, in piedi, come autentico interlocutore; Dio vuole che l’uomo sia un vero ‘tu’ davanti a Lui. Ora, essere il ‘tu’ di Dio significa essere preso fuori da tutto quanto è banale ed effimero ed essere introdotto in una relazione che ha la serietà e la profondità di Dio stesso. Chi è un ‘tu’ per Dio non può essere o diventare o essere trattato come un oggetto qualsiasi. Fino a che è in relazione con Dio non può essere comperato con la promessa di soldi o di onori o di vantaggi; non può immeschinire il desiderio riducendolo a un’auto accessoriata o a un robot sgrava-fatica o a un tablet mirabolante. Se la relazione personale con Dio è reale, l’uomo è più grande del mondo: i soldi, le cose, i titoli, gli onori, i vantaggi, le carriere debbono per forza contare poco. Tra parentesi: questo è il segno, purtroppo, che la nostra religiosità è spesso solo apparenza.

Ancora: Ezechiele è mandato a predicare a un popolo ribelle che quindi probabilmente non lo ascolterà, anzi gli sarà ostile, lo minaccerà, tenterà di pungerlo come gli scorpioni. Ezechiele conoscerà la tentazione, fin troppo umana, di sottrarsi al suo compito e di compiacere a coloro che gli stanno di fronte. Il volto degli altri, in questo caso, assumerà per lui la figura inquietante della minaccia e contestualmente quella gradevole della seduzione. Per questo Dio ripete insistentemente: “non li temere, non avere paura… non temere le loro parole, non t’impressionino le loro facce.” A Geremia, in un’occasione simile, Dio aveva detto: “Non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro.” E cioè: non adulterare la parola per renderla gradevole a chi ti ascolta. Se, spaventato dal loro aspetto, tacerai quello che devi dire, ti farò diventare il loro zimbello come chi agisce, parla o tace mosso dalla paura. Insomma, stare alla presenza di Dio produce nell’uomo una più profonda libertà di fronte agli altri. C’è dunque un volto dell’altro che può diventare problematico perché può impaurire e quindi rendere schiavo. In questi casi il ‘Tu’ di Dio è sorgente di libertà; permette alla persona di trovare uno spazio di libertà anche di fronte a ciò che si presenta minaccioso o gratificante.


Ho tentato di indicare l’importanza dell’esperienza dell’altro nella crescita e nella formazione di una persona umana. Abbiamo ripreso le tre forme fondamentali che il volto dell’altro assume: la forma del mondo naturale, quella del mondo umano, quella del mistero divino. Tre forme di relazione molto diverse, evidentemente, che tuttavia sono collegate, si arricchiscono e si correggono una con l’altra.

La relazione col mondo naturale pone l’uomo di fronte alla forma elementare di ciò che è altro da lui e lo fa offrendo all’uomo una forma rigida ma proprio per questo disponibile a essere conosciuta e usata. La relazione con l’uomo è molto più profonda ma anche più problematica. È più profonda perché questa relazione si gioca nel confronto tra due coscienze, tra due libertà, tra due soggetti capaci di conoscere e di amare. Quando questa relazione diventa matura – nell’esperienza dell’amicizia e dell’amore – l’esistenza dell’uomo è immessa in un processo di maturazione che tende verso la pienezza dell’amore e che non ha fine. È vero, però, che questa relazione comporta delle ambiguità: l’uomo ha un volto, ma ha anche delle maschere; può darsi all’altro nell’amicizia, ma può anche tradire l’altro nella finzione; può sanare con la compassione, ma può ferire e uccidere con l’odio o con l’insensibilità. Per questo il rapporto con la natura sempre fedele a se stessa diventa terapeutico. Permette all’uomo scottato dell’infedeltà del falso amico di riprendere fiducia di fronte alla solidità del mondo.

Non è ancora tutto: al di là del volto del mondo e del volto dell’uomo c’è anche il volto di Dio. Che cosa aggiunge questo volto? Anzitutto l’affermazione di un valore non misurabile della persona umana. Se prendo in esame una persona concreta, posso valutare le sue qualità: qualità fisiche determinate dalla salute, efficienza, bellezza, forza del corpo; qualità intellettuali misurate dall’acutezza dell’intelligenza, dalla chiarezza e precisione della ragione; qualità sociali, misurate dalla funzione che la persona svolge nella società: carriera, servizio, riconoscimenti e simili; qualità politiche misurate dai suoi diritti… continuate fin che volete questo elenco; poi fate la somma e troverete che questa somma è notevolmente alta. Alta sì, ma, almeno teoricamente, finita; e siccome è finita, è possibile sempre ipotizzare una serie di mancanze che distruggano questi valori: la malattia, la vecchiaia, la debolezza mentale, le debolezze psichiche, l’insuccesso economico, l’emarginazione sociale e così via. Può addirittura infiltrarsi il disprezzo per la persona: quanto vale il debole per Nietzsche? o il barbaro per il Greco? o il poveraccio per il jet set? Ebbene: tutte queste persone valgono la relazione con Dio: quella che essi possono stabilire con Lui, ma in ogni modo quella che Egli ha stabilito da sempre e per sempre con loro.

A questo valore originario se ne aggiunge immediatamente un altro a partire dalla possibile esperienza del male. Il male, purtroppo, è parte più che presente nell’esperienza dell’uomo concreto. Dal male, per fortuna, si può uscire attraverso la conversione, ma la domanda ritorna: “si può davvero uscire? e sempre?” Dal punto di vista fisico o psicologico o sociale è possibile che si arrivi a dire: “Siamo arrivati a un punto in cui non c’è più niente da fare”; dal punto di vista della relazione con Dio bisogna dire che Dio è in grado di ricuperare ogni persona e di portare ogni persona a un compimento. Non in modo magico, non senza il ‘sì’ dell’uomo; piuttosto con l’azione delicata, rispettosa, ma potente della sua grazia. La rigidità della natura è completata dalla libertà dell’uomo; ma la libertà dell’uomo è sanata dall’amore creativo di Dio. L’amore di Dio s’incarna nell’amore concreto della persona umana; ma l’amore incostante della creatura umana ha un correttivo nell’ordine fisso e quindi fidabile della natura.

L’uomo è creatura che si fa da sé; ma non in modo capriccioso. L’uomo fa se stesso nel rapporto col mondo, con l’altro, con Dio. Nella misura in cui queste relazioni sono vissute correttamente, l’uomo cresce in umanità e questa sua crescita è misurata dalla capacità di amare, cioè di promuovere il bene dell’altro, l’umanità dell’altro. Solo così diventa vero quanto scrive Camus: che “nell’uomo ci sono più cose da ammirare che da disprezzare.”


+LUCIANO MONARI 05 feb 2017 12:24