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di GIAN PIETRO GIRELLI 24 nov 2017 13:11 Ultimo aggiornamento 23 nov 2017 11:54

Una lentezza che penalizza la Chiesa

Il ritorno a scelte essenziali di vita di fede è poco aiutato da un sistema legislativo spesso farraginoso e ingessato, vittima della burocrazia

Quando si parla del bene della Chiesa si sa, vi è un unico Sommo Bene: l’amore del Cristo che si riversa copioso, per grazia del Padre, nella storia dell’uomo ed è lo Spirito Santo. Quando però di parla dei “beni” della Chiesa subito si è istintivamente portati a considerare tutti quei beni mobili e immobili che costituiscono il patrimonio stabile della Santa Sede, di ogni diocesi, delle parrocchie e di ogni ente afferente. Di per sé tali ricchezze sono deputate al servizio principale, all’essenza stessa della Chiesa cioè all’evangelizzazione.


Anche per questo il richiamo di papa Francesco alla sobrietà e alla povertà suona non anacronistico, anzi perfettamente allineato al senso comune dei fedeli che vogliono una Chiesa più povera e comunque al servizio della giustizia e della carità. Dunque ben venga che la Chiesa si spogli dei beni di questa terra, se questo serve al fine ultimo: annunciare al mondo il disegno di salvezza di Dio. Si aprano i conventi e i seminari ai più poveri e diseredati, si vendano gli immobili che non servono più alla vita pastorale, si donino al territorio e agli enti pubblici soprattutto per interventi culturali e sociali, spazi che, inutilizzati, griderebbero vendetta al cospetto di Dio. Quanti sono gli oratori che impiegano centinaia di metri quadri per la catechesi? Aule e sale lasciate vuote e inutilizzate per tutto il resto della settimana e impiegate solo due ore per gli incontri dei gruppi di catechesi, teatri che non hanno gli standard di legge per sostenere la vocazione originale, canoniche già vuote o che sempre più rischiano di esserlo?


A fianco dell’uso che fa la Chiesa dei suoi ambienti, c’è un altro tema altrettanto importante ed è quello delle difficoltà che la stessa incontra nel ridefinire destinazioni d’uso e nei procedimenti pe**r la vendita di immobili per il reimpiego delle risorse per il bene primario, l’evangelizzazione e la carità. Non sono pochi i tentativi di mettere a frutto alcuni immobili della Diocesi di Brescia, delle parrocchie, ma anche di singole congregazioni. Il problema è che quando la comunità cristiana arriva alla decisione di dismettere un suo immobile, oltre che con le condizioni di mercato, oggi particolarmente difficili in Italia, deve scontrarsi anche con le procedure previste dalle leggi dello Stato e l’evidente difficoltà di una burocrazia elefantiaca oggi incredibilmente presente nella Regione lombarda soprattutto per quanto attiene le procedure della Soprintendenza.


È però doverosa una digressione circa il dettato legislativo attuale: ai sensi del Decreto Legislativo n° 42 del 2004 gli immobili degli enti pubblici e non profit, tra cui anche gli enti ecclesiastici, se hanno più di 70 anni ricadono, sia per la vendita sia per i lavori di restauro e ristrutturazione, nella complessa procedura di tutela dei beni culturali. Peraltro in funzione della vendita degli stessi si incorre nella necessità di procedere alla Verifica di interesse culturale (Vic) con un meccanismo procedurale che presenta qualche elemento “singolare”. La Diocesi di Brescia presenta ad oggi più di cinquanta richieste di Verifica d’interesse culturale che attendono risposta (alcune da più anni) e che non sono ancora state evase. Pare che la mancanza endemica di personale soprattutto nel Segretariato Regionale di Milano non possa essere superata nell’immediato futuro.


Più di una parrocchia in questi anni ha attivato e risolto tre preliminari di vendita sullo stesso immobile: risorse bloccate che si potevano impiegare per il restauro di beni che non sono soltanto della Chiesa, ma, proprio perché beni culturali, sono a vantaggio di tutta la popolazione. Tanti beni culturali così vanno in deperimento mettendo a repentaglio la cultura italiana tanto osannata e proclamata.


È il caso di dire che come Chiesa “vorremmo, ma spesso non possiamo” visto che le briglie procedurali sono “ingroppate” e i cocchieri, più che guidare i fenomeni, li subiscono. La Chiesa deve camminare ancora molto per riscrivere il proprio progetto di evangelizzazione e viverlo, ma purtroppo è poco aiutata non solo dalla cocciutaggine dei legami con un passato che ha offerto il fianco alla logica dei privilegi, ma anche da un sistema legislativo spesso farraginoso e ingessato. Vivere scelte essenziali di vita di fede è purtroppo così inficiato anche da una burocrazia civile. La Chiesa è chiamata ad incarnarsi come il Cristo e non disdegna di condividere le angosce e i dolori della società attuale, solo non vorrebbe favorire né la corruzione, né la dabbenaggine, vorrebbe solo si facesse quanto previsto dalla legge: risposte in tempo utile, anzi nei tempi fissati dalla legge stessa, quattro mesi! Lo stato di diritto non si può fondare solo sulla legalità, ma deve fare prima di tutto i conti con la giustizia. Che la Chiesa non possa esprimere il bene possibile, causa una legislazione farraginosa e lacunosa, o addirittura disattesa dallo Stato stesso, è proprio ingiusto nei confronti delle scelte delle comunità, ma ancor più nei confronti della cultura italiana e dei poveri che ne potrebbero avere gran beneficio.

GIAN PIETRO GIRELLI 24 nov 2017 13:11 Ultimo aggiornamento 23 nov 2017 11:54