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Brescia
di REDAZIONE 07 dic 2018 12:14

I diritti umani

“Missione Oggi”, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, presenta un dossier speciale sul tema. Lunedì 10 dicembre alle 17.30 nella Sala dei Giudici di Palazzo Loggia la prolusione di Antonio D'Andrea, ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Brescia

“Missione Oggi”, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, presenta un dossier speciale sul tema I diritti umani al vaglio di religioni e culture a cura di Mimmo Cortese e Laura Novati

Lunedì 10 dicembre alle 17.30 nella Sala dei Giudici di Palazzo Loggia la prolusione di Antonio D'Andrea, ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Brescia. Intervengono: Intervengono: Roberto Cammarata (presidente del Consiglio Comunale); Anna Mabellini (Fondazione Calzari Trebeschi), padre Mario Menin (direttore di “Missione Oggi”). Modera Laura Novati (critica letteraria e consulente editoriale)

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, uscita dai disastri della guerra, sollecitata dalle esigenze della coesistenza pacifica, fu approvata nel 1948 e ha dato vita a una serie di altri trattati promossi dalle Nazioni Unite, frutto di una costante elaborazione giuridica. L’importanza della sua esistenza è stata dunque pari alla progressiva consapevolezza della sua inadeguatezza, non solo a comprendere nuove aspettative e bisogni emersi nel corso dei decenni, ma soprattutto verificando la difficoltà della sua applicazione alla complessità delle religioni e culture in cui venivano a collocarsi i diritti del singolo.

Il problema sembra tanto più vivo nel contesto asiatico, in cui il rispetto incondizionato dei diritti umani è stato messo in discussione a partire da una diversa concezione dell’essere umano, della cultura e delle religioni. Secondo il filosofo Jürgen Habermas, la critica che i paesi asiatici muovono all’universalismo dei diritti umani si appunta su tre diverse direzioni: mette in discussione la priorità che (in linea di principio) i diritti hanno rispetto ai doveri; fa entrare in gioco una determinata gerarchia (di tipo comunitaristico) tra i diritti umani; lamenta gli effetti negativi sulla coesione sociale prodotti da un ordinamento giuridico di taglio individualistico.

Per questo la Dichiarazione non può più giustificarsi solo in nome di un universalismo – di tradizione occidentale – che appare storicamente e ideologicamente inadeguato a rispettare e soddisfare i diritti umani contemporanei. Essi vanno piuttosto misurati sulla base di molteplici convinzioni etiche e religiose non coincidenti, ma da porre in dialogo, vanno applicati secondo una giustizia storica e sociale – di un’epoca post-coloniale – spesso dimenticata nella stessa astrattezza dei principi o più spesso travolta dalle logiche di globalizzazione.

Appare perciò necessario l’affermarsi di una concezione contro-egemonica dei diritti umani e di una pratica ad essi coerente. Se un principio universalmente valido si vuole comunque ritrovare, forse esso si fonda su un compito, quello di “dare voce alla sofferenza umana per renderla visibile ed alleviarla”, come sostiene lo storico indiano Upendra Baxi, esponente di rilievo dei Subaltern Studies.

«In un mondo fattosi abissalmente e univer­salmente diseguale, nel quale 8 (otto!) super ricchi possiedono l’equivalente delle risorse di metà dell’u­manità, e in cui si aspetta l’avvento del primo trillionaire (uno che possegga mille miliardi di dollari) –, non si trova nessun protagonista politico, nessun candidato alla rap­presentanza di questi “perdenti della new economy, in grado di proporsi, credibilmente, come strumento di una battaglia egualitaria. La casella delle politiche egualitarie è, nella maggior parte dei paesi, vuota. E accade allora che l’esercito dei perdenti si affidi a un vincente, quello che trovano, purché capace di dar vo­ce alla loro rabbia e offrire un’immagine di diversità. […] Eppure basterebbero forse dei segnali chiari per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia in­combente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non mas­sacrato, una dinamica salariale meno punitiva, poli­tiche meno chiuse nel dogma dell’austerità... Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”» (Marco Revelli, Populismo 2.0).

REDAZIONE 07 dic 2018 12:14