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Brescia
di GIUSEPPE BELLERI 05 ott 2020 11:10

I 60 anni di Brèssa me bèla cità

Francesco Braghini: “La città non aveva un inno che la rappresentasse; abbracciai la chitarra e la canzone venne a me”

“Soltanto un musicista poteva mettere le ali alle piccole cose della vita e appoggiare sulla carta il gioco infantile delle nuvole piene di ricordi. Le parole, in un canto di umiltà e gratitudine, attraversano l’amarezza, la letizia e lo stupore nello sforzo generoso di un’attenzione costante alle pieghe infinite dell’esistenza”.

La storia. Così la poetessa bresciana Elena Alberti Nulli presenta la fresca e agile biografia stesa dall’amico Francesco Braghini che possiamo definire il “Cantautore della Brescianità”, essendo il primo vero cantautore bresciano. Braghini nasce a Brescia nel 1931, sesto di dodici figli, figlio di Oddone, noto artista teatrale oratoriano; cresce nel popoloso rione di Porta Milano, nel quartiere Mazzucchelli; è operaio alla Breda nel ’48, si diploma maestro nel ‘54 ed inizia ad insegnare nella scuola elementare; laureatosi in pedagogia passa nel 1970 nella scuola media come docente di lettere. “Sono un appassionato di musica popolare, del cielo stellato, della natura e della poesia dialettale “, scrive di sé. Ma facciamo un passo indietro, quando Francesco, siamo nel 1954, viene assunto alla Stipel, lui insieme ad un altro uomo, dove lavoravano altre 150 telefoniste, nella centrale dove venivano smistate manualmente le telefonate fuori città. Nello stesso anno consegue come privatista il diploma di maestro e il 1° ottobre del 1959 inizia il suo insegnamento in una terza media mista a Berlingo. “Ora che avevo finalmente un buon lavoro sicuro − racconta Braghini − iniziai ad accarezzare l’idea del matrimonio: quando lavoravo alla Stipel c’era una signorina interessante, che organizzava gite e passeggiate in montagna, con buone qualità e validi principi morali e sociali; il suo nome era Ernesta Villa, sul lavoro da tutte chiamata ‘La Villa’. Mi innamorai, ma ci vollero alcuni mesi per sciogliere la sua freddezza e il 3 luglio 1960 − molti gli invitati ma pochi i presenti, dato che si dovevano fare quattro ore di camminata in montagna − ci sposammo nella cappella di Santa Barbara, in Val Salarno, sopra Saviore dell’Adamello. Il viaggio di nozze lo facemmo con un Isomoto carico di tenda, viveri e sacchi a pelo diretti al Gaver, dove piantammo la tenda e ci godemmo quattro giorni di pioggia; ma si sa che… spusa bagnada l’è spusa fürtunàda”.

La chitarra. Ma torniamo all’aspetto artistico di Francesco: col suo primo stipendio s’era comprata una buona chitarra tramite l’amico d’infanzia Tullio Romano, l’autore della famosa canzone “Angelita” ed anche scopritore del cantante Fausto Leali, e con quella, ma aveva già composto alcune canzoni con testo in italiano, compone nell’ottobre del 1960, fresco di nozze, la sua prima ballata in dialetto: “Brèssa me bèla cità”, che lo fa conoscere al pubblico bresciano. Ma come ebbe l’idea di scrivere la sua prima canzone in vernacolo, la canzone che tutti i bresciani conoscono e che canticchiano anche quando ritornano alla cara cittadina dopo una gita turistica fuori porta?

“Rifugio Brescia, o-oh”. L’altra sua bella canzone, che cantano gli escursionisti è “Rifugio Brescia, o-oh”. “Avevo constatato − ricorda Braghini − che mentre alcune città avevano la loro canzone, come Milano con “O mia bela Madunina”, Brescia non aveva un inno che la rappresentasse; abbracciai la mia chitarra e la canzone venne a me, parole e musica insieme e a metà ottobre, durante la cena d’inizio anno scolastico con i colleghi maestri, la cantai per la prima volta in pubblico: fu un successo al primo ascolto e da allora composi quasi solo canzoni nel dialetto della Pallata. Quante serate a cantare le mie canzoni nei vari teatri provinciali e non solo, quanti pomeriggi ad allietare i degenti delle case di riposo, ma anche quante volte gliele ho suonate ai Russi: ogni anno l’amico padre Pippo Ferrari ospitava le scolaresche di ragazzi residenti attorno a Chernobyl nella colonia di Coccaveglie e io, ben volentieri, salivo ad ogni turno per accompagnarli il mattino in una passeggiata naturalistica, in cui presentavo i fiori ed erbe incontrati sui sentieri, e la sera li allietavo con alcune mie canzoni”.

L’animo bresciano. Lo scrittore Gian Battista Muzzi così lo ha pennellato in un’intervista del 2007: “Il lavoro di Braghini non si può ridurre solo alle canzoni, il suo è stato uno scavare nell’animo bresciano, ricercarne le radici, gli aneliti, le pulsioni, con l’intento di stigmatizzare le banalità del meschino quotidiano, denunciare le ingiustizie senza odiare gli uomini che le commettono e palesare apertamente che il bene l’avrà sempre vinta sul male. L’ottimismo di Braghini si frammischia alla dolente condivisione della sofferenza; nasce dalla compassione che la gente dei vecchi quartieri bresciani viveva quotidianamente con chi era nella difficoltà”. Francesco Braghini non ha ancora appeso la chitarra al chiodo, vive serenamente con la moglie Ernesta al Villaggio Prealpino circondato dall’affetto dei figli e dei nipoti.

GIUSEPPE BELLERI 05 ott 2020 11:10