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Kigali
di REDAZIONE 08 apr 2019 08:09

25 anni fa il genocidio in Rwanda

Prendeva il via un quarto di secolo fa una delle più grandi tragedie africana che arrivò a provocare quasi un milione di vittime. Anche Brescia, presente nel Paese con l'associazione Museke e la Fondazione Tovini visse in prima linea quel dramma. Grazie alle due realtà 41 bambini arrivarono a Castenedolo e vennero salvati dalla morte. Il ricordo di chi visse quelle giornate

Rilima, Rwanda, 1994. Rilima è l'abitato con acqua potabile ed un ospedale attrezzato (grazie alla cooperazione italiana) più vicino ai campi profughi burundesi. Dista 60 km. dalla capitale Kigali e 30 km. dal confine con il Burundi. Questi campi sono stati realizzati dopo la morte del presidente del Burundi Melchior Ndadaye il 21 ottobre 1993. Qui l'esercito, in prevalenza di etnia Tutsi, non accettò la recente elezione del Presidente Ndadaye del Frodebu (Fronte per la Democrazia in Burundi) nonostante fosse il primo presidente liberamente eletto e di etnia hutu nella storia del Burundi. Fu assassinato nella sua casa dopo soli 102 giorni di presidenza da tre militari. Fu strangolato con una corda e trafitto sette volte dalle baionette degli stessi militari. Il suo cadavere venne abbandonato nel campo e dileggiato, infine sepolto in una fossa comune nello stesso campo insieme ai corpi di Pontien Karibwami, vicepresidente e presidente dell'Assemblea Nazionale, di Bimazubute Gilles, vice presidente dell'Assemblea Nazionale, di Juvénal Ndayikeza, ministro dell'agricoltura e dello sviluppo rurale e Richard Ndikumwami, Direttore dei Servizi Segreti. Prendeva così il via un massacro senza precedenti. Anche Brescia visse in prima linea quella tragedia. e L’associazione Museke, oggi fondazione, la onlus creata nel 1969 da Enrica Lombardi che, assieme alla Fondazione Tovini, sosteneva il centro di Kigali, nel cuore del Rwanda oeganizzò il trasferimento a Castenedolo di 41 bambini che ospiti del centro rwandese, dando loro trovando una nuova speranza e in molti casi una nuova famiglia.

Fabio Pipinato, presidente di Ipsia del trentino (Istituto pace sviluppo innovazione Acli) è stato cooperatore in Rwanda e Kenya, ricorda quei giorni a Kigali e l’avvio del genocidio.

5 aprile, ore 6 del mattino. Sveglia. Esco dalla porta di casa. Silenzio. Non si muove foglia. I primi raggi, deboli, illuminano l’acqua del lago. Ferma. Non vi sono pescatori, oggi. Le canne di papiro non ondeggiano. Non cantano più gli uccelli.

Dall’altra sponda del lago, presso la prigione, non vedo carcerati con la loro buffa divisa rosa recarsi al lago per prender acqua e non v’è ombra di un secondino. Non v’è bisogno di lavarsi oggi?
Mi reco all’acquedotto. Sarà o no una buona giornata? Tutto regolare. L’impianto funziona a meraviglia. Esce acqua in abbondanza. Buona nuova. I rifugiati burundesi, siti nei vicini campi rifugiati al confine con il Burundi dall’ottobre ’93, avranno anche oggi la razione di acqua potabile.

Carico le cisterne in pvc di color bluastro dei due camion parcheggiati ed assetati. Le cisterne hanno lo stesso colore delle tende di plastica che l’Alto Commissariato per i Rifugiati – Unhcr – ha da poco distribuito per ricoprire dalla pioggia le capanne improvvisate intrecciando poca ramaglia. La stessa plastica la ritrovi, in abbondanza, nel mercato nero. Venduta per sopravvivere qualche giorno in più.

Vorrei farmi aiutare per il carico d’acqua dagli zamu (guardiani notturni) che stanno confabulando tra loro e sembrano non dar retta alla mia richiesta d’aiuto. Li saluto con il saluto consueto che da anni si fa in Rwanda e Burundi. Muramuzeu! Che, peraltro, significa: siete sopravvissuti alla notte?

No. Non rispondono. Oggi non è giornata.
Mi trovo in bilico all’alba sopra il cassone del camion con una pompa che spara a pressione incontrollata e loro stanno ancora lì impalati con una radiolina gracchiante in mano.

Alzo la voce. Si avvicinano. Mi guarda Joseph, il più anziano e con un francese impastato di Kinyarwanda mi dice: – “Non è bene andare dai profughi, oggi!”
Rimango impietrito! È successo qualcosa di grave. La radiolina trasmette musica classica – Mozart – e proclami in lingua locale che non comprendo.

M’era capitato due mesi prima di disattendere i loro consigli e mi sono trovato nei guai. Dicevano: – “Non è bene andare a Kigali, oggi!” Ed io presa l’auto mi infilai, come un pivello, dentro una confusione tale che sembrava di stare a Sarajevo, nei giorni dell’assedio o a Beirut nel 1982. La radio trasmetteva musica classica e proclami in Kinyarwanda.

Ci son voluti tre giorni di paura, un referente della Focsiv Guido Acquaroli incosciente (oggi cooperante in Burundi), l’onnipresente console Pierantonio Costa, e i giovani caschi blu belgi per uscire da quel girone. Con quest’ultimi ho condiviso nel febbraio 1994 la fuga dalle granate, un ritorno dall’aeroporto rocambolesco con alberi di traverso sulla strada e copertoni bruciati, un rifugio in una casa privata, gli spaghetti stracotti immersi nei sughi in scatola, un video sui gorilla dei monti Virunga e un letto fino alle prime luci del mattino. In seguito sono stati tutti “promossi” guardie del corpo del Primo Ministro Agathe Uwilingiyimana- donna e politico formidabile. Il 7 aprile sono stati passati tutti all’arma bianca; uno ad uno. Dall’ultimo al Primo Ministro. Il Palazzo di vetro non concesse il permesso via radio all’autodifesa. L’assurdo contrasto tra risoluzioni Onu e giovani peacekeepers.

Trovatisi in pericolo e circondati dai genocidari avevano implorato clemenza ai loro assassini e, nel contempo, chiesto via radio, a New York, il permesso di legittima difesa. Negato. Avevano la colpa d’esser belgi e su di loro cadeva l’accusa, da parte della cricca mafiosa al potere, d’aver ucciso il Presidente del Rwanda Juvénal Habyarimana e il collega burundese Cyprien Ntaryamira di ritorno da Arusha Tanzania ove si stavano svolgendo i “colloqui di pace” nella regione dei Grandi Laghi.

Con loro è “venuta meno” anche l’autorità sovranazionale. Ma non è servito a nulla. I governi hanno permesso un anno dopo la stessa ecatombe. A Srebrenica in Bosnia, nel cuore dell’Europa. Delegittimando le Nazioni Unite. Uccidendo i popoli.

– Cos’è successo? Chiedo agli zamu.
– Ieri sera hanno ucciso il Presidente Habyarimana.
Sento che sta per crollare la piramide. Chiudo l’acqua. Mi siedo sul cassone del camion.

È capitato ancora. Nei Grandi Laghi, quando muore un pezzo grosso, iniziano gli scontri tribali. Si colpisce ovunque, senza ragione. Anzi, con la massima pianificazione. È poi l’esercito, unica agenzia che dà occupazione in Rwanda, a riportare l’ordine; dove, quando e nella misura gli viene comandato.
Ma stavolta non si trattava di un pezzo grosso ma “del” pezzo grosso. Della testata d’angolo.

Corro in casa a recuperare la mia radio. France International, tra le news, conferma l’uccisione dei due Presidenti più una decina di membri dell’equipaggio e tre ufficiali francesi.

L’amico Giandomenico Colonna è già al telefono: console, amici a Kigali, l’ong “amici dei popoli” e le ong in Italia Medicus Mundi e Fondazione Tovini. L’equipe medica di “Médicins sans Vacances” sono all’oscuro di tutto e tranquillamente stanno facendo colazione nel refettorio comune; a breve apriranno la sala operatoria. In lista vi sono 10 bambini malati di polio da operare che sono nel contempo eccitati e con la consueta fifa d’entrare nella sala verde.

Per fortuna ci sono loro. Il lavoro quotidiano senza il quale s’impazzisce. La microemergenza che ti fa deviare lo sguardo dalla catastrofe. Parlavamo, d’improvviso, due linguaggi: l’immediato ed il cosa accadrà. L’aldiquà e l’aldilà del nostro progetto.

Dalla cartella clinica: allungamento del tendine d’Achille. Mentre il chirurgo incideva il piccolo di 8 anni con la massima cura ed attenzione per ridargli l’orgoglio di stare in piedi il fratello del bambino, a casa, cadeva a terra squartato come centinaia di migliaia di bambini, dal machete. Abitiamo questa contraddizione con rabbia, dolore e lucidità.

Non potendo andare ai campi profughi, che stavano per diventare luoghi di reclutamento (un orecchio – tot franchi rwandesi) per compiere ciò che è poi accaduto, aiuto mia moglie Paola a preparare altri bambini per la sala operatoria. Serve sterilità ed acqua potabile in abbondanza.

Tra noi non parliamo molto. Sappiamo troppo. Scaramanzia e paura. Aspettavamo il primo figlio. Eravamo indecisi se farlo nascere a Kigali o in Italia; in Capitale v’erano e vi sono strutture d’eccellenza e la ginecologa che aveva seguito Paola ci sembrava molto in gamba. Ricordo con un sorriso la prima volta che accompagnai mia moglie alla visita; andammo assieme a una suora laica del centro disabili. Quando fu il turno di Paola la gineocloga, una volta visitata, le disse: – “sorella, ho una notizia da darle”. No, no, un attimo! Non sono suora, la interruppe Paola.

A mezzodì arrivano notizie preoccupanti da Kigali: sono in corso gli scontri cruenti tra le forze del Fronte Patriottico Rwandese – FPR e l’esercito regolare – FAR (Forza Armate Rwandesi). Già dal pomeriggio vedo un via vai di camion militari e noto anche qualche graduato francese in mimetica attraversare l’abitato di Rilima dove c’è il nostro ospedale.

In Europa, i TG ne parlano tra le ultime notizie e si limita il conflitto alla capitale. E’ subito notte! Si decide di dormire tutti assieme nel salone accanto al refettorio.

Sorridevo quando, durante la preparazione come cooperante in Italia, i vecchi volontari rientrati dai Grandi Laghi come l’ortopedico dott. Loda c’insegnavano ad uscire dalle emergenze. Ci dicevano di non contraddire i soldati; di dormire sotto le finestre; di tenere aperto il collegamento radio, di pagare le richieste di corruzione e così via. Arrivato a Rilima mi lamentai con la direzione del Centro per l’esile rete che divideva il paese con l’ospedale. La vedevo come un ostacolo tra noi e la gente. Il 6 aprile avrei desiderato un muro alto 6 metri con i reticolati a corrente 380 a protezione del mondo che c’era attorno a me.

Sono arrivato a desiderare i mercenari. Potevano sparare qualsiasi cifra, li avrei assoldati. Mi son fatto paura – ho avuto paura. Stavo entrando, anch’io, nella logica viziosa della guerra: paura dell’altro – difesa armata – incutere paura – avere paura – sino alla morte. Ti cambia la mente. Ti fa paura.

L’esile rete permise invece a decine di persone (prevalentemente di etnia tutsi) di salvarsi la vita, durante la prima e le seguenti notti. Decine di persone scampate dal genocidio che si stava consumando tra strazianti grida di suppplica.

Il personale del Centro iniziò a dividersi. Persone con carta d’identità hutu da un lato e tutsi dall’altro.
– No. Non dividiamoci! Urlò l’assistente sociale responsabile del Centro. Dobbiamo stare uniti.

– Così ci uccidono sia noi che voi! Le risponde l’amica di etnia hutu che ha saputo di esser tale solo perché sta scritto, su mandato coloniale, sulla sua carta d’identità.

Bisogna preparare, per i tutsi, un nascondiglio sicuro, all’insaputa dei primi. All’insaputa di tutti. C’è una camera oscura vicino alla sala operatoria. Nessuno conosce l’esistenza a parte i medici europei in quanto vi si conservano i farmaci di un certo valore. Mettiamoci alcune coperte ed in piena notte portiamoci i tutsi. Se arriverà l’esercito o i genocidari non li troveranno. Allocammo un armadio davanti alla porta.

Poi, li trovarono. A fare la spia è stato colui con il quale ho lavorato fianco a fianco per quasi un anno. Impeccabile come allievo fisioterapista. Peccabile dopo il 6 aprile. Vittorioso durante i massacri e umiliato, in seguito, dopo la vittoria di Kagame. Una vendetta che dura sino ai giorni nostri e che s’è allargata a mezzo continente africano; la miccia per la grande guerra dei grandi laghi.

Infiniti rifornimenti d’armi via Uganda resero i tutsi vincitori e, parallelamente, un embargo al rifornimento di armi via Zaire agli Hutu. Così decise il Palazzo di Vetro. L’anglofonia ebbe ed ha la meglio sulla francofonia nella Regione dei Grandi Laghi.

Con loro arrivò la Chiesa protestante e quella cattolica andò subito in minoranza. A seguire la legislazione su modello inglese. A Kigali, oggi, i bambini studiano in inglese. Politica internazionale e adattamento.

– Il ministro. In linea c’è il ministro! Grida l’amico Giandomenico. Via satellite la Farnesina ci raggiunge. Ci garantisce che in breve tempo saranno da noi i parà italiani o quelli francesi. Aprile 1994 governo Prodi. Ministro agli Affari Esteri Beniamino (Nino) Andreatta.

Passeranno, poi, lunghe giornate. L’interramento di mine da parte dell’esercito rwandese e le minacce da parte del Fronte Patriottico (se osate entrare vi taglieremo la testa) fanno desistere ogni esercito a metter piede dentro i confini del piccolo Rwanda. Anzi. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anziché rafforzare la presenza delle forze armate ONU, come richiesto dal generale Romeo Dallaire le riduce drasticamente. Sarebbero bastati 5.000 uomini per fermare i massacri ma i governi facevano orecchie da mercante; la posta in gioco è troppo alta. In Italia sta per cambiare il governo. Referente nostro è ora il ministro Martino. Primo ministro Silvio Berlusconi.

Il fabbro dell’ospedale mi chiede di andare a recuperare la moglie ed i figli che sono fuggiti da casa durante la notte, evitando il massacro. Ora, sono dalla zia. Conosco la strada. Esco dall’Ospedale con la Pajero. In tasca ho una scacciacani che avrei avuto paura solo ad impugnare. Trovo la moglie del fabbro e le bambine là dove mi fu indicato. Carico tutti in auto, sotto una coperta, e torno all’ospedale. Per le strade i genocidari, arrivati da lontano, scortati dall’esercito ben armato già iniziarono la mattanza con il machete. Uccidono coloro che hanno l’aspetto europeo: labbra non carnose e naso sottile. I nilotici tutsi.

L’inferno non può essere peggiore; vedi scene che ti fanno sprofondare di girone in girone. Senza pietà. Non c’è fine al peggio sino a trovarti in paradiso. Mi spiego. La gente sorride, collabora. I bambini saltellano, indicano ai genocidari dove si sono rifugiati i loro coetanei tutsi come stessero giocando a nascondino. Le donne aiutano l’esercito a compilare la lista come fosse quella della spesa ed invece è la lista delle persone da eliminare. A migliaia. Uno studente delle superiori, vedendomi, grida: “E’ la nostra Rivoluzione Francese”. Altri “Libertà, libertà”. Avevano appena seppelito quasi tutti i componenti di una squadra di basket del liceo che mi dilettavo di allenare. Avevano la mano destra fuori terra. Come stessero ancora giocando.

C’era raduno, folla, lo “stare assieme”. Tutti rubarono di tutto. Compresi i lavandini da installare nelle povere pareti di fango dei contadini come non servissero anche le condotte di acqua per farli funzionare. E’ finita la fame, l’oppressione, l’umiliazione, l’essere figli di un dio minore. Da sempre servi. Insomma: è la festa. Il “nobile tutsi” se ne stava nascosto nei canneti, in foresta, nelle paludi. Braccato; con la sua famiglia; i suoi bambini. Qualche mamma decise di annegarli. Una morte più dolce del lungo coltello affilato. Il marito di etnia hutu fu costretto ad uccidere pubblicamente la moglie tutsi. L’etnia prima di ogni altro legame. Lo predicarono anche alcuni preti. Per braccare il fuggitivo utilizzarono anche i cani. I cani che a Kigali inizarono a sazarsi dei cadaveri abbandonati.

Impotente mi faccio largo a suon di clacson nella strada principale affinché non scoprissero il mio carico. Intravvedo tra coloro che uccidevano e coloro che stavano per essere uccisi, vicini di casa, conoscenti, amici. Follia popolare. Pochi giorni prima stavano seduti in chiesa o al mercato. Assieme.

La radio incitava gli uni a riempire le fosse comuni degli altri: gli scarafaggi. Moderati hutu compresi, rei di non far parte della festa o, peggio, di nascondere rifugiati in casa propria.
Passa un’altra notte. Lenta. Le grida fuori dall’ospedale; nuovi rifugiati dentro. Colpi di fucile. Facciamo tutti la guardia, tranne chi avrebbe dovuto farla: gli zamu. Stavano complottando per allearsi con i più forti. Vivere non fidandosi del vicino.

Mi sono sempre definito un pacifista e mi ritrovai a confezionare con stracci, bottiglie vuote e benzina delle rudimentali molotov giusto per tenere lontana la furia popolare. Una resistenza che sarebbe durata poche ore. Piazzai i due camion cisterna nei pressi dei due cancelli d’entrata pronti ad accendere gli abbaglianti qualora vi fosse un assembramento di folla. Fui richiamato dal sindaco François per questo in quanto temeva che la cosa facesse irritare ancor più gli scalmanati e disturbasse il poco sonno dei moderati.

Il nostro cuoco c’informò che stavano per attaccare il centro. Ebbe paura. Scavalcò nottetempo la rete su sconsiglio del fratello Petero che rimase con noi europei. Non se ne trovò più traccia.

– C’è gente al cancello, gente al cancello. Esclamò Petero!

Mi avviai verso il cancello; vidi che alcuni avevano dei bastoni e altri delle mazze chiodate. Non pensai due volte e estrassi la scacciacani. Vi fu un fuggi fuggi.
– Ma tu hai coraggio di uccidere? Mi chiese il fabbro Giovanni alle 3 di notte, durante un turno di guardia e di accoglienza degli scampati.
– Io no. Gli risposi.
– E allora che cosa ci fai qui con noi? Vai a dormire!

Anziché dormire la sera uscivo incosciamente dal “centre des handicapées” per andare a trovare Padre Marcel (tutsi) o le vicine suore spagnole. Il primo aveva una paura matta di rimanere solo con i genocidari e veniva spesso a trovarci. Il suo catechista si procurò delle granate mentre lui della grappa trentina. Una di queste interminabili sere, mentre stavo attraversando la strada con un buio pesto, e disattendendo puntualmente le regole che c’eravamo dati come europei, incrociai un gruppo di uomini che tornavano “dal lavoro”. Avevano i machete insanguinati e mi accorsi della loro presenza quando ormai ero a meno di un metro. – Bonsoir Fabien – esclamò uno di loro. – Bonsoir! Risposi gelato. Intravvidi, poco lontano, tra le piante persone che cercarvano riparo e rifugio; per ora scampati dal machete. Loro si accorsero ch eli notai e portarono l’indice al naso. Silenzio.

Il giorno dopo il pozzo del paese era pieno di cadaveri e Josephine, la bambina che ogni mattina si recava al centro per un tozzo di pane, squartata davanti al nostro cancello. La riconobbi dal vestito. Vomitai. Presi paura; rientrato nel centro cercai di mettermi in collegamento con l’Italia. Il telefono funzionava infatti in uscita e raramente in entrata. Mi collegai con una nostra amica che stava a New York presso il segretariato generale delle Nazioni Unite e lanciai un appello che fu ascoltato dalle nostre ong che da Brescia provavano a far pressione presso l’Unità di Crisi della Farnesina. Arrivò sino ai miei cari in Italia.

Poi presi sonno. Era circa mezzogiorno. Mi coricai e mi svegliai il giorno dopo. Il corpo ha detto basta. Anche la mente aveva bisogno di staccare.

Le cisterne. Passavo le sere sopra le cisterne di ferro che, stranamente, continuavano a rimpirsi di acqua. Era la postazione dove potevi controllare tutto il centro di disabili, i confini e le reti, la vicina parrocchia e i diversi movimenti che accadevano nell’abitato di Rilima. Ad onor del vero gaurdavo anche il cielo chiedendomi quando e se sarebbero mai arrivati i paracadutisti. Non ero preoccupato solo per Paola e per me ma anche per Marco, il nostro primo figlio, che avrebbe dovuto nascere ai primi di settembre.
Dopo interminabili giornate d’attesa arrivarono i belgi. Teste di cuoio. Ragazzi poco più che ventenni dipinti di nero. Senza alcuna paura di uccidere, se necessario. Non dovevano chiedere permesso ad alcuna autorità sovranazionale ma avevano un solo compito: portare a termine il loro lavoro. Il comandante era esperto di evacuazioni: Zaire, Burundi ed ora Rwanda.

Il centro esplose di gioia. Tutti si considerano salvi. Dalla paura collettiva. Da loro stessi. Dai genocidari. Da chi gli sta accanto. Decine di persone fecero capolino da sopra i container dove avevano trovato riparo; sembravano gli ebrei dei letti a castello di Auschwitz. Stessi volti consunti; stessi occhi sbarrati.
I liberatori hanno fame. Si prepara loro da mangiare. Si da fine alle scorte. Anche i rifugiati hanno fame. Si da cibo e accesso ai bagni. Alla possibilità di lavarsi.

Il capo missione mi ordinò di svuotare tutto il vino che era in casa affinchè i genocidari non se ne appropriassero. Lo stesso per la scorta di gasolio e benzina. Poi andavano svuotati i serbatoi dei camion. Obbedìi.

Ad un tratto una telefonata. Urla in francese. Stanno massacrando a Kigali i loro commilitoni. Altri soldati e civili belgi.
Contr’ordine. – Portare via solo i bianchi. – Subito.

– Alcuna discussione

È la disperazione. Il prete Marcel mi chiese il favore di parlare con i soldati al fine di uccidere con una mitragliata tutti i tutsi presenti. Gli zairesi rivendicano diritti d’appartenenza alla comunità internazionale. La Farnesina non risponde, il Console Costa sta facendo del suo meglio a Kigali e non solo e non risponde al telefono fisso.
A forza ci caricano sui camion. Abbandoniamo tutti! Sotto la minaccia delle armi affinché nessuno tentasse di salire sui mezzi in partenza. E’ iniziata la caccia al belga. Vietato parlare francese. Per noi. Vietato avvicinarsi ai camion. Per loro.

Guidavo un furgone Toyota ed ero in coda al convoglio. Tentai d’imbarcare un paio di persone ma le teste di cuoio mi scoprirono: – vuoi farci amazzare tutti? Mi presero il passaporto!

Percorro i 60 km. che dividono Rilima dalla capitale attento a seguire il carro semovente che guida il convoglio. Non sono ammessi fuoripista. Mine anticarro. Veniamo fermati di tanto in tanto da gruppi di interahamwe che sporchi di sangue e pieni di droga battevano sui vetri del pulmino al grido “tutsi tutsi”. Avevo una calma e un sangue freddo che mi è tipico delle situazioni di panico. Non fermai mai la macchina. Arriviamo a Kigali. I cadaveri lungo i fossi e incorcio in un spartitraffico un mio coetaneo che impreca: “coloni, fuori da questa terra”.
A Kigali entriamo nell’aeroporto dove veniamo marchiati con un timbro sul dorso della mano. Si sentono spari ovunque e rimno attonito della flemma della funzionaria che mi timbra la mano. Ci attende un aereo militare che sarà, tra l’altro, carico di cani. I cani dei signori che vivevano in capitale. Poche le persone di colore. Vi sarebbe stato posto per molti nostri amici che abbiamo abbandonato. Ti sale il “senso di colpa e l’impotenza”. Destinazione Nairobi. Poi cambio per Bruxelles. L’aereo decolla. Il Rwanda brucia. Colonne di fumo si alzano dai cortili dei tutsi. Incendiate tutte le loro proprietà.
In Belgio ci aspetta il Console mentre il Corriere della Sera titola in prima pagina: Salvi gli italiani di Rilima in Rwanda con tutto il personale locale. Come promesso dalla Farnesina.
Giandomenico va su tutte le furie. Le organizzazioni non governative pure. E’ una palla. Il Console ci ascolta e chiede un incontro immediato con il Ministro Belga anch’egli presente in aeroporto per accogliere i suoi di connazionali. Non sono stati rispettati gli accordi.

Il Ministro belga ascolta e si lamenta delle pretese degli italiani. Dopo una lite affatto diplomatica, dove il Ministro rivendicava la messa in sicurezza degli italiani il Console risponde secco in francese: “non sono italiano. Sono siculo!” Il non detto: “ho a cuore la sicurezza sua e della sua famiglia”. Silenzio. Il Ministro alza la cornetta ed invia una task force da Kigali, via elicottero, a Rilima. Questa seconda evacuazione è un successo: vengono salvati quasi tutti; dopo una giornata di terrore. Ostaggi dell’esercito e in attesa dei genocidari. Soli, stanchi e lontani.

Ci ritrovammo in Europa con decine di bambini, adulti, scampati. V’era anche Padre Marcel. I genocidari entrarono in canonica e uccisero senza pietà il catechista. Un cristiano, tra i genocidari, vide Marcel a terra ubriaco fradigio e convinse i suoi “compari di massacro” a risparmiarlo in quanto era in preda ad una malattia terribile. Ucciderlo significava fargli un favore. Insomma, lo salvò la grappa.

L’asilo di Castenedolo di Brescia offrì la sua struttura per accogliere i più piccoli. Ironia della sorte. Gli adulti, invece, trovarono riparo in Belgio ospiti di una struttura della regina Paola Ruffo di Calabria.

Seguimmo quotidianamente l’evolversi della guerra e salutammo favorevolmente L’Opération Turquoise condotta dalle forze armate francesi in Rwanda nel giugno del 1994 sotto il mandato delle Nazioni Unite con il fine ufficiale di porre un freno al genocidio ma con lo scopo ufficioso di mettere in salvo la famiglia Habyarimana amica personale della famiglia Mitterand. Seguimmo il rientro del console Costa che lasciò il paese solo quando tutti gli italiani, compresi coloro che per negligenza non s’iscrissero all’Aire, furono messi in salvo.

Seguimmo la vittoria dei tutsi sugli hutu e l’esodo di milioni di persone. Le città di Goma e Bukavu, nel vicino Zaire, accolsero milioni di persone tra le quali alcuni nostri amici di Rilima compreso il sindaco al quale avevamo affidato qualche rispramio per mettere in salvo se e la sua famiglia.

In queste città, normalmente di centomila abitanti, si temette il colera con il sopraggiungere di dieci volte tanto la propria popolazione. Ricordo che vennero accatastati i cadaveri ai confini con il Rwanda. Le organizzazioni internazionali entrarono pian piano in Rwanda e ai confini: Medici senza Frontiere, Croce Rossa internazionale e, tra le italiane, Emergency al quale fu affidata la pediatria dell’ospedale civile di Kigali.

Il 18 luglio 1994, dopo 100 giorni di guerra e quasi un milione di morti ammazzati, il Fronte Patriottico Rwandese prende il potere e, come ritorsione, stipa le carceri di genocidari o presunti tali.

Si viene a conoscenza di drammi innimmaginabili. Partite a calcio con teste di uomo, chiese, tra le quali la vicina Nyamata, adibite a macello, stupri di massa.

Nei Grandi Laghi iniziò la “caccia all’hutu” e, con la questa scusa, la conquista della Repubblica Democratica del Congo per la conquista di suolo e sottosuolo di una terra – il Kivu, provincia del Katanga – che è la più ricca del pianeta. Qui, non a caso, fu ucciso Patrice Lumumba e vi combattè Che Guevara. Qui si trovano i giacimenti più importanti di coltan al mondo. Gli aeroporti internaioznali più vicini sono, guarda caso, le capitali di Rwanda e Burundi.

In Italia, da lì a poco, insorse la società civile contro le politiche di vendita di armi a paesi in guerra. Venne istituita la Commissione presieduta da Achille Occhetto e la Valsella, dopo un paio di tentativi di aggirare la legge, venne riconvertita. Una nota di speranza.

Non rientrai per quasi un ventennio. Ero indesiderato come tutti coloro che, in qualche modo, contribuì a far uscire ma, soprattutto, a non far rientrare i rifugiati in patria.

Ricevetti il visto d’ingresso nell’agosto del 2012. Trovai un paese che incredibilmente stava cambiando.

REDAZIONE 08 apr 2019 08:09