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Roma
05 feb 2022 16:05

Il Sindaco Del Bono con l'Anci dal Papa

Paternità o maternità, periferie e pace. Sono le tre parole consegnate dal Papa ai Sindaci dell'Associazione Nazionale Comuni d'Italia. Francesco ha avuto parole di incoraggiamento e non di circostanza per i primi cittadini tra i quali era presente, emozionato, il sindaco di Brescia, Emilio del Bono. Il Pontefice ha esortato i Sindaci a continuare nell'impegno per il bene comune e a non fuggire di fronte alle tante responsabilità.

"Se penso al vostro lavoro - ha esordito il Papa - mi rendo conto di quanto sia complesso. A momenti di consolazione si affiancano tante difficoltà. Da una parte, infatti, la vostra vicinanza alla gente è una grande opportunità per servire i cittadini, che vi vogliono bene per la vostra presenza in mezzo a loro. La vicinanza. Dall’altra parte, immagino che a volte sentiate la solitudine della responsabilità. Spesso la gente pensa che la democrazia si riduca a delegare col voto, dimenticando il principio della partecipazione, essenziale perché una città possa essere bene amministrata. Si pretende che i sindaci abbiano la soluzione a tutti i problemi! Ma questi – lo sappiamo – non si risolvono solo ricorrendo alle risorse finanziarie. Quanto è importante poter contare sulla presenza di reti solidali, che mettano a disposizione competenze per affrontarle! La pandemia ha fatto emergere tante fragilità, ma anche la generosità di volontari, vicini di casa, personale sanitario e amministratori che si sono spesi per alleviare le sofferenze e le solitudini di poveri e anziani. Questa rete di relazioni solidali è una ricchezza che va custodita e rafforzata".

Il discorso del Papa

Sono contento di accogliervi per un momento di riflessione sul vostro servizio per la difesa e la promozione del bene comune nelle città e nelle comunità che amministrate. Attraverso di voi, saluto i Sindaci di tutto il territorio nazionale, con grato apprezzamento, in particolare, per ciò che state facendo e che avete fatto in questi due anni di pandemia. La vostra presenza è stata determinante per incoraggiare le persone a continuare a guardare avanti. Siete stati punto di riferimento nel far rispettare normative a volte gravose, ma necessarie per la salute dei cittadini. Anzi, la vostra voce ha aiutato anche chi aveva responsabilità legislative a prendere decisioni tempestive per il bene di tutti. Grazie!

Se penso al vostro lavoro mi rendo conto di quanto sia complesso. A momenti di consolazione si affiancano tante difficoltà. Da una parte, infatti, la vostra vicinanza alla gente è una grande opportunità per servire i cittadini, che vi vogliono bene per la vostra presenza in mezzo a loro. La vicinanza. Dall’altra parte, immagino che a volte sentiate la solitudine della responsabilità. Spesso la gente pensa che la democrazia si riduca a delegare col voto, dimenticando il principio della partecipazione, essenziale perché una città possa essere bene amministrata. Si pretende che i sindaci abbiano la soluzione a tutti i problemi! Ma questi – lo sappiamo – non si risolvono solo ricorrendo alle risorse finanziarie. Quanto è importante poter contare sulla presenza di reti solidali, che mettano a disposizione competenze per affrontarle! La pandemia ha fatto emergere tante fragilità, ma anche la generosità di volontari, vicini di casa, personale sanitario e amministratori che si sono spesi per alleviare le sofferenze e le solitudini di poveri e anziani. Questa rete di relazioni solidali è una ricchezza che va custodita e rafforzata.

Guardando al vostro servizio, vorrei offrirvi tre parole di incoraggiamento. Paternità – o maternità –, periferie e pace.

Paternità o maternità. Il servizio al bene comune è una forma alta di carità, paragonabile a quello dei genitori in una famiglia. Anche in una città, a situazioni differenti si deve rispondere con attenzioni diversificate; perciò la paternità – o maternità – si attua anzitutto attraverso l’ascolto. Il sindaco o la sindaca sa ascoltare. Non temete di “perdere tempo” ascoltando le persone e i loro problemi! Un buon ascolto aiuta a fare discernimento, per capire le priorità su cui intervenire. Non mancano, grazie a Dio, le testimonianze di sindaci che hanno dedicato gran parte del tempo ad ascoltare e raccogliere le preoccupazioni della gente.

E con l’ascolto non deve mancare il coraggio dell’immaginazione. A volte ci si illude che per risolvere i problemi bastino finanziamenti adeguati. Non è vero, in realtà, occorre anche un progetto di convivenza civile e di cittadinanza: occorre investire in bellezza laddove c’è più degrado, in educazione laddove regna il disagio sociale, in luoghi di aggregazione sociale laddove si vedono reazioni violente, in formazione alla legalità laddove domina la corruzione. Saper sognare una città migliore e condividere il sogno con gli altri amministratori del territorio, con gli eletti nel consiglio comunale e con tutti i cittadini di buona volontà è un indice di cura sociale. È un po’ il mestiere del sindaco e della sindaca.

La seconda parola è periferie. Fa pensare il fatto che Gesù sia nato in una stalla a Betlemme e sia morto fuori dalle mura di Gerusalemme sul Calvario. Ci ricorda la “centralità” evangelica delle periferie. Mi piace ripetere che dalle periferie si vede meglio la totalità: non dal centro, dalle periferie. Spesso voi avvertite il dramma che si vive in periferie degradate, dove la trascuratezza sociale genera violenza e forme di esclusione. Partire dalle periferie non vuol dire escludere qualcuno, è una scelta di metodo; non una scelta ideologica, ma di partire dai poveri per servire il bene di tutti. Voi lo sapete molto bene: non c’è città senza poveri. Aggiungerei che i poveri sono la ricchezza di una città. Questo a qualcuno sembrerebbe cinico; no, non è così; ci ricordano – loro, i poveri – le nostre fragilità e che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ci chiamano alla solidarietà, che è un valore-cardine della dottrina sociale della Chiesa, particolarmente sviluppato da San Giovanni Paolo II.

In tempo di pandemia abbiamo scoperto solitudini e conflitti all’interno delle case, che erano nascosti; il dramma di chi ha dovuto chiudere la propria attività economica, l’isolamento degli anziani, la depressione di adolescenti e giovani – pensate al numero dei suicidi dei giovani! –, le disuguaglianze sociali che hanno favorito chi godeva già di condizioni economiche agiate, le fatiche di famiglie che non arrivano a fine mese… E anche, mi permetto di menzionarli, gli usurai che bussano alle porte. E questo succede nelle città, almeno qui a Roma. Quante sofferenze avete incontrato! Ma le periferie non vanno solo aiutate, devono trasformarsi in laboratori di un’economia e di una società diverse. Infatti, quando abbiamo a che fare con i volti delle persone, non basta dare un pacco alimentare. La loro dignità chiede un lavoro, e quindi un progetto in cui ciascuno sia valorizzato per quello che può offrire agli altri. Il lavoro è davvero unzione di dignità! Il modo più sicuro per togliere la dignità a una persona o a un popolo è togliere il lavoro. Non si tratta di portare il pane a casa: questo non ti dà dignità. Si tratta di guadagnare il pane che tu porti a casa. E quello sì, ti unge di dignità.

Terza parola: pace. Una delle indicazioni offerte da Gesù ai discepoli inviati in missione è quella di portare pace nelle case: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”» (Lc 10,5). Tra le mura domestiche si vivono tanti conflitti, c’è bisogno di serenità e di pace. E siamo certi che la buona qualità delle relazioni è la vera sicurezza sociale in una città. Per questo c’è un compito storico che coinvolge tutti: creare un tessuto comune di valori che porti a disarmare le tensioni tra le differenze culturali e sociali. La stessa politica di cui siete protagonisti può essere una palestra di dialogo tra culture, prima ancora che contrattazione tra schieramenti diversi. La pace non è assenza di conflitto, ma la capacità di farlo evolvere verso una forma nuova di incontro e di convivenza con l’altro. «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse […]. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri […]. Vi è però un terzo modo, il più adeguato […]: accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 227). Il conflitto è pericoloso se rimane chiuso in sé stesso. Non dobbiamo confondere la crisi con il conflitto. Per esempio, la pandemia ci ha messo in crisi, questo è buono. La crisi è buona, perché la crisi ti fa risolvere e fare passi avanti. Ma la cosa cattiva è quando la crisi si trasforma in conflitto e il conflitto è chiuso, il conflitto è guerra, il conflitto è difficile che trovi una soluzione che vada più avanti. Crisi sì, conflitto no. Fuggire dai conflitti ma vivere in crisi.

La pace sociale è frutto della capacità di mettere in comune vocazioni, competenze, risorse. È fondamentale favorire l’intraprendenza e la creatività delle persone, in modo che possano tessere relazioni significative all’interno dei quartieri. Tante piccole responsabilità sono la premessa di una pacificazione concreta e che si costruisce quotidianamente. È bene ricordare qui il principio di sussidiarietà, che dà valore agli enti intermedi e non mortifica la libera iniziativa personale.

Cari fratelli e sorelle, vi incoraggio a rimanere vicini alla gente. Perché una tentazione di fronte alle responsabilità è quella di fuggire. Isolarsi, fuggire… Isolarsi è un modo di fuggire. San Giovanni Crisostomo, vescovo e padre della Chiesa, pensando proprio a questa tentazione, esortava a spendersi per gli altri, piuttosto che restare sulle montagne a guardarli con indifferenza. Spendersi. È un insegnamento da custodire, soprattutto quando rischiamo di farci prendere dallo scoraggiamento e dalla delusione. Vi accompagno con la mia preghiera e vi benedico, benedico tutti voi: ognuno nel suo cuore, nel suo mestiere, benedico i vostri uffici di sindaco, benedico i vostri collaboratori, il vostro lavoro. E ognuno riceva questa benedizione nella misura della propria fede. E vi chiedo per favore di pregare per me, perché anch’io sono “sindaco” di qualcosa! Grazie.


L'intervento del presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro

"I due anni che abbiamo alle spalle sono stati anni di lutti e di dolore non solo per l'Italia ma per tutto il mondo. Di questa ferita, il rischio più profondo è la perdita del senso di comunità, di vicinanza e di condivisione.

“Quanto disagio personale, sociale e psicologico hanno recato i pur necessari comportamenti imposti ai cittadini ed in particolare a quelli più fragili che già prima della pandemia e, a prescindere da essa, vivevano ai margini delle nostre comunità?”, ha ricordato. “Ecco, Santità, in questi lunghi mesi i Sindaci hanno dovuto e voluto affrontare anche questo tipo di emergenza – ha sottolineato -. Mentre ci prodigavamo per fare quanto ci era richiesto dalle esigenze sanitarie: convincere i cittadini a rispettare le regole, riorganizzare gli uffici pubblici, contribuire ad allestire i centri di soccorso e quelli per la campagna vaccinale, coordinare i volontari e fra essi i tanti delle associazioni cattoliche, ci siamo però soprattutto occupati di tenere insieme le nostre comunità e i nostri concittadini”. “Per far questo – ha continuato Decaro – abbiamo guardato negli occhi la paura, abbiamo affrontato la morte di chi ci stava intorno, abbiamo aiutato chi restava solo in casa e facendogli avere un sacchetto di spesa o anche solo chiamandolo al telefono per una breve chiacchierata. Anche noi abbiamo avuto paura, Santità. Non ci vergogniamo a dirlo”. “Ci siamo trovati, come tutti – ha spiegato il presidente dell’Anci -, a dover affrontare una minaccia sconosciuta e invisibile”.

“Come tutti – ha aggiunto -, non avevamo nei primi tempi gli strumenti e le conoscenze per affrontarla e temevamo che questa bufera avrebbe spazzato via tanti anni di lavoro e di sacrificio, dei nostri concittadini e di noi amministratori. Eppure noi, anche per la responsabilità che abbiamo, questa paura sapevamo di doverla vincere e l’abbiamo vinta”. Decaro ha quindi rievocato che “più volte la pandemia è stata paragonata a una guerra mondiale. Questo paragone, secondo me appropriato, mi ha fatto pensare che allora anche noi Sindaci abbiamo dei riferimenti storici ai quali ispirarci, per ciò che dobbiamo fare e per ciò che ci attende”. “II primo nome che mi viene in mente a questo proposito – ha affermato – è quello di Giorgio La Pira, che fu Sindaco di Firenze, figura che so a Lei molto cara e che compare sempre, giustamente, nel novero dei grandi Sindaci che sono stati protagonisti della rinascita delle rispettive città dopo la catastrofe del conflitto mondiale”. “Credo che l’esperienza di La Pira come sindaco, simboleggi alla perfezione – sia pure a un livello che nessuno di noi può aspirare a raggiungere – quell’insieme di concretezza”, ha concluso.



05 feb 2022 16:05