Maturità: Affinati e le tre parole per la vita

Per oltre 500mila studenti prende oggi il via l'esame di Stato. Per lo scrittore e docente romano, occorre insegnare agli alunni il valore di chi resta indietro e l'uso responsabile e “disarmato” delle parole. “Imparare la scienza dei limiti – avverte - è fondamentale per diventare veramente liberi e adulti”. Tre le parole da "consegnare" ai ragazzi: scelta, memoria, responsabilità. E sull’importanza del voto in condotta: “Il rispetto degli studenti non si ottiene con una sanzione. Occorre conquistarne la fiducia puntando sulla relazione umana”
Con la prova scritta di italiano – uguale per tutti – prendono oggi il via gli esami di maturità. Domani la seconda prova scritta, specifica per indirizzo di studio; a seguire gli orali. Con qualche novità rispetto all’anno precedente: l’importanza del voto in condotta, determinante per l’ammissione all’esame, preclusa per chi ha meno di 6. Con la sola sufficienza è necessaria una tesina su temi di cittadinanza attiva e solidale; per il massimo del credito scolastico occorre avere un 9. Abbiamo incontrato Eraldo Affinati (nella foto), scrittore romano e appassionato educatore, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi nel 2008 della scuola Penny Wirton (oggi quasi una settantina di realtà in tutta Italia) per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati. Qualche settimana fa Affinati ha concluso a Roma il Cammino della pace partito da Milano con i ragazzi delle Penny Wirton disseminate lungo il percorso, ed è appena uscito in libreria il suo ultimo volume, “Testa, cuore e mani. Grandi educatori a Roma” (Libreria Editrice Vaticana 2025).
Professore, adolescenti sempre più fragili, sfiduciati verso le proprie capacità e il futuro, iperconnessi ma sempre più soli. Questo il volto della maggior parte dei nostri maturandi. Lei incontra quotidianamente alla Penny Wirton ragazzi immigrati da tutto il mondo: in che cosa sono simili o diversi rispetto ai nostri, e che cosa possono insegnare loro?
Mohamed e Ibrahim, minorenni non accompagnati provenienti da Dacca e Banjul, hanno la stessa energia vitale di Giovanni e Marco, i liceali che noi formiamo come piccoli docenti di lingua italiana, ma rispetto a loro sembrano microadulti, visto che prima di arrivare in Europa, hanno già vissuto esperienze molto intense: il distacco dalla famiglia, il trauma del viaggio spesso pericoloso, la necessità di doversi inventare un’esistenza nuova in un mondo sconosciuto, essendo chiamati a coniugare due culture, due modi di vivere, due sistemi verbali. Ciò li rende, allo stesso tempo, più forti e più vulnerabili. Per i nostri figli, ma in fondo anche per tutti noi, questi giovani migranti incarnano la volontà di ricrescita anche dopo essere caduti a terra. Non siamo in pochi a credere che abbiamo bisogno della speranza che rappresentano.
Ti basta guardarli per capire che, attraverso di loro, la pianta umana rinasce sempre, là dove meno te l’aspetti.
Quest’anno il voto in condotta è determinante per l’ammissione o meno all’esame. Lo ritiene un mezzo efficace per rafforzare l’autorità degli insegnanti e promuovere negli studenti la cultura del rispetto?
Posso capire le ragioni che hanno spinto i nostri governanti a muoversi in questa direzione, ma dopo quarant’anni di insegnamento, fra tanti dubbi che mi restano almeno una certezza credo di averla: il rispetto profondo e autentico da parte dei ragazzi i docenti non lo ottengono comminando una sanzione. Così, nella migliore delle ipotesi, potranno semmai ottenere un timore reverenziale e non duraturo.
Ciò che bisogna fare è conquistare la fiducia preliminare degli alunni, puntando tutto sulla qualità della relazione umana.
Nel mio ultimo libro racconto come si comportavano i grandi educatori: san Filippo Neri era maestro e amico dei suoi piccoli ribelli, san Giuseppe Calasanzio riusciva a intercettare gli adolescenti più turbolenti, don Giovanni Bosco agiva assai prima della malefatta, Maria Montessori sapeva come rendere protagonisti i bambini, don Luigi Orione seppe guadagnarsi la stima di un ragazzino davvero difficile com’era Ignazio Silone a quindici anni, mons. Carroll Abbing, il creatore della Città dei Ragazzi, non aveva bisogno di minacciare i suoi allievi più indocili, riusciva a portarli dalla sua parte giocando a carte scoperte: e non stiamo parlando di stinchi di santo!
Stiamo assistendo ad un’impressionante escalation di violenza: dopo oltre due anni di guerra in Ucraina e 20 mesi in Israele, è scoppiato un nuovo conflitto tra Israele e Iran. Come educare i nostri ragazzi a non assuefarsi alla violenza, ma ad impegnarsi per la pace, il rispetto e la convivenza tra diversi?
A noi piace far studiare insieme scolari che provengono da Paesi nemici oppure in tensione: russi e ucraini, arabi ed ebrei, etiopi ed eritrei.
Basta una sola coppia in azione didattica per mostrare a chi guarda che si può uscire, magari soltanto una volta in modo simbolico, dalla contesa che rischia di avvelenare i pozzi per diverse generazioni. Molte associazioni lo stanno facendo, stipulando nel loro piccolo tante paci invisibili, fuori dal cono di luce dei riflettori. Nel mio ultimo Cammino della pace, da Milano a Roma, ho raccolto numerose testimonianze di giovani profughi: mi resta negli occhi una ragazza yemenita che vive a Viterbo. Alla sua giovane età patisce la condizione di esule, ma quando sorride è come se riuscisse a dimenticare tutto. Vorrei portare quelle come lei nelle scuole italiane a parlare ai nostri studenti: questo dovremmo fare.
Quale, allora, dovrebbe essere il ruolo della scuola?
Favorire gli incontri fra persone ferite, in modo da far capire ai ragazzi il valore di chi resta indietro perché non può tenere il ritmo degli altri:
io che vado spesso in giro nelle scuole so che in molti istituti questo si fa già, dobbiamo incrementarlo. E quando accade un atto di violenza, non dobbiamo mai dimenticare tutte le volte che invece le cose vanno bene e nessuno dice niente.
Da docente, ma soprattutto da scrittore: come insegnare ai giovani che anche le parole possono diventare pietre, scintille in grado di innescare un’esplosione, e che quindi vanno “disarmate” e maneggiate in modo responsabile?
Dobbiamo mostrare che le parole hanno sempre una conseguenza e non possono restare prive di riscontro: questo vecchio obiettivo pedagogico, nella civiltà digitale è diventato molto più difficile da raggiungere rispetto al passato. Oggi purtroppo si ha l’impressione che ciò che diciamo o scriviamo possa risultare gratuito. E invece no: se sbagli, ad esempio insultando una persona, devi pagare. Non puoi credere di poter passare indenne. Imparare la scienza dei limiti è fondamentale nel percorso verso la maturità. Dico di più:
soltanto nell’accettazione del limite, quale che sia, diventi veramente libero e adulto.
Stiamo celebrando il Giubileo della speranza, la grande “assente” del nostro tempo. Se dovesse “consegnare” tre parole per il futuro ai ragazzi impegnati in una prova che rappresenta la fine di un percorso e uno spartiacque nella loro esistenza, quali sarebbero e perché?
La prima parola da consegnare ad un giovane è scelta. Non si può restare sempre aperti a tutte le possibili opzioni. Arriva un punto in cui diventa necessario saper rinunciare a qualcosa anche di prezioso che potremmo fare, in nome di qualcos’altro in cui crediamo di più. La seconda parola a cui penso è memoria: soltanto se capisci da dove vieni, puoi comprendere in quale direzione andare. Da ragazzi è difficile rendersi conto che spesso la stazione da cui partiamo risulta anteriore alla nostra nascita, quasi sempre riguarda i genitori: se ad esempio questi non hanno fatto bene i compiti (esistenziali), saranno i figli a doverli affrontare. La terza parola è responsabilità, da non intendersi in senso solo giuridico. Essere responsabili dei contesti nei quali operiamo resta fondamentale, non basta eseguire il mansionario per sentirsi a posto con la coscienza. Mettere insieme queste tre parole vuol dire prepararsi al viaggio della vita. Ma prima di poterlo iniziare, dobbiamo imparare i fondamentali: cose molto semplici, come ad esempio saper prendere bene gli appunti. In tanti anni di esperienza nel ruolo di commissario interno ed esterno agli esami di Stato, ho scoperto che non sempre i ragazzi erano stati addestrati a farlo. Ecco, come docenti non dovremmo mai dare niente per scontato.
