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Roma
di M.VENTURELLI 21 gen 2015 00:00

Padre Albanese: contro i fondamentalismi una sfida culturale

Il missionario comboniano, direttore della rivista "Popoli e missioni", sulle stragi perpetrate dal movimento Boko Haram in Nigeria e sulle "partite" future da giocare contro chi strumentalizza la religione per fini eversivi

Mentre i ministri degli Esteri e i capi di Stato maggiore di 13 paesi africani partecipavano a Niamey, la capitale del Niger, a un vertice regionale promosso dai paesi membri della Commissione del bacino del Lago Ciad, specchio d’acqua al confine tra Nigeria, Niger, Camerun e Ciad e dedicato alla crisi innescata da Boko Haram, il gruppo islamista continuava senza sosta la sua azione con uno sconfinamento in Camerun, nel villaggio di Mabass dove hanno preso in ostaggio decine di persone, tra cui 50 bambini. Nelle stesse ore, nel nord-est della Nigeria un nuovo attentato kamikaze colpiva la città di Potiskum, con un bilancio di almeno quattro morti e 35 feriti. Una situazione sempre più difficile che, dopo i tragici fatti di Parigi, è entrata finalmente nell’attenzione della comunità internazionale che, non a caso, ha dato il suo sostegno al vertice regionale. La conferma arriva anche da padre Giulio Albanese, giornalista e missionario comboniano, direttore della rivista Popoli e missioni.

“La nostra stampa – afferma al proposito - è molto provinciale e finisce per porre l’attenzione sui fatti a noi fisicamente più vicini. Quelli distanti non riescono a bucare lo schermo. Così per troppo tempo non si è fatto cenno alla guerra civile che sta devastando le regioni nordorientali della Nigeria, una guerra che va avanti dal 2009 e che sta facendo pagare il prezzo più alto, contrariamente a quanto scrivono molti giornali, non ai cristiani, ma alla popolazione in senso lato, cristiani e musulmani. Se volessimo fare un compito delle vittime non sarebbe difficile dimostrare come i Boko Haram abbiano ammazzato più musulmani che cristiani. È chiaro che dietro c’è un’ideologia e che stiamo assistendo ad una strumentalizzazione della religione per fini eversivi. La stampa e la comunità internazionale non hanno però riservato alla Nigeria in questi anni quell’attenzione che dovrebbe essere necessaria, non fosse altro perché in quel villaggio globale che ornai è diventato il mondo, i problemi dell’Africa sono ormai i nostri problemi.

Nei suoi interventi va dicendo che non si può liquidare la vicenda dei Boko Haram come un fatto esclusivamente interno alla Nigeria. Perché?

Diciamo che ci sono diverse componenti che interagiscono tra di loro e forse in questo caso è corretto dire quello dei Boko Haram è un tema complesso. Questo significa che da una parte sicuramente ci sono delle complicità legate al palazzo, vale a dire legate alla gestione del potere. Quello in corso in Nigeria è uno scontro tra oligarchie e non dimentichiamo che la Nigeria è un Paese a forte esclusione sociale. Nonostante sia leader continentale per quanto concerne la crescita del pil, meno dell’1% della popolazione detiene il 75% della ricchezza nazionale. A questo si aggiunge il fatto che purtroppo le popolazioni del nord in questi anni hanno subito una forte emarginazione e sono state preda di facili propagande per certi versi anche violente da parte di predicatori e di imam. È inutile nascondere che quello che sta avvenendo oggi è possibile perché vi sono complicità straniere, soprattutto da parte del mondo salafita. Attraverso i missionari è stato possibile raccogliere testimonianze di sopravvissuti alle stragi che documentano la presenza di miliziani del Mali, della Libia, del Sudan, del Ciad fra i ranghi del movimento Boko Haram. Tutto questo la dice lunga sul fatto che questo fenomeno sta assumendo sempre di più una valenza regionale.

La comunità internazionale sta reagendo ai fatti di Parigi con misure più atte a tenere il fondamentalismo fuori dai propri confini che non con azioni orientate a cercare di incidere laddove questo fenomeno si genera. È una scelta lungimirante?

Credo che dobbiamo capire che questa sfida prima ancora che militare, sociale ed economica è culturale. Mai come oggi siamo chiamato a gettare ponti, a favorire la conoscenza, lo studio. Non bisogna dimenticare che movimenti come l’Isis e lo stesso Boko Haram hanno allergia nei confronti dell’educazione, dell’istruzione. La considerano, per citare Marx, l’oppio dei popoli. La formazione, invece, è la prima forma di solidarietà. Da questo punto di vista dunque dobbiamo perseguire un atteggiamento dialogico, tenendo anche conto che non possiamo fare di ogni erba un fascio. Un conto è stigmatizzare, condannare in modo fermo e risoluto i crimini perpetrati dai jiadisti, sarebbe un grave errore pensare che il mondo islamico sia tutto così. Ci sono certo degli aspetti sui quali bisogna lavorare. Basti pensare al fatto che il mondo islamico ha una forte caratterizzazione teocratica, in cui l’aspetto religioso è intimamente connesso a quello politico. A me viene sempre in mente quello che diceva un grande intellettuale iraniano, Ali Shariati, padre del riformismo iraniano che sottolineava, erano gli anni Ottanta del secolo scorso, che il mondo islamico era storicamente tra il 13° e il 14° secolo. In che stato era l’Europa tra il 1400 e il 1500? Il Vecchio continente non aveva ancora conosciuto la riforma e la contro riforma, erano ancora lungi dal manifestarsi l’Umanesimo, l’Illuminismo. Tutto questo per comprendere con il cuore e con la mente che la grande sfida che abbiamo davanti è quella di aiutare il mondo islamico a confrontarsi con la modernità attraverso la società civile, investendo soprattutto sui giovani. I Paesi occidentali in questi anni hanno fatto poco o niente per finanziare gli atenei e le università del mondo islamico, lasciando così il campo aperto agli estremisti, ai salafiti, a coloro che in un modo o nell’altro stanno oggi predicando la violenza.
M.VENTURELLI 21 gen 2015 00:00