Educare alla pace
Scrivere di pace, parola così carica di attese e povera di mezzi, è sempre stato difficile, in ogni epoca storica. Chi l’ha invocata, cercata, costruita ha spesso subito il sacrificio personale. Chi l’ha evocata, ma non perseguita ha contribuito a svuotarla di significato, fino a ridurla a un indicatore dell’assenza (temporanea) di guerra. Oggi siamo in guerra. Lo siamo perché ci sono decine di casi nel mondo in cui la violenza non cessa, ma anche perché molti rapporti internazionali si basano sulla progettazione della risoluzione armata dei conflitti e perché gli sforzi diplomatici stanno cedendo da tempo il passo all’uso della forza. Da un lato giovani che avevano da tempo imparato a conoscersi grazie ai mezzi di comunicazione e alle esperienze internazionali, tornano a spararsi. Dall’altro i morti civili, spesso i più deboli, si contano a milioni dalla fine della seconda guerra mondiale, tra cui milioni di bambini. Dunque “che fare”?
Quando ci si pone questa domanda spesso il tempo è scaduto. La cultura della prevenzione va applicata anche alle guerre. Prevenire vuol dire agire sulle cause, studiare il passato e guardare al futuro, e non tanto accumulare armi a scopo di deterrenza. So che non possiamo sfuggire al drammatico dilemma della difesa armata verso il tiranno, saremmo ingenuamente colpevoli. Spesso però i tiranni crescono alla luce del sole. Non potremmo intanto investire nella riduzione dell’ignoranza scandalosa rispetto alla storia dei conflitti? Peraltro le sofferenze e le umiliazioni delle guerre di oggi le ritroveremo come cause di scontri nel futuro, per generazioni. Non dovremmo forse prestare attenzione a cosa avviene in Georgia, in Moldavia, nei Paesi Baltici, in Finlandia, in Polonia, in Serbia? Sosteniamo questi Paesi, soprattutto quelli con democrazie in crisi (ma quali non lo sono?). Da obiettore di coscienza al servizio militare armato sono sempre colpito dalle parole che cantava tempo fa De André: “Se verrà la guerra chi ci salverà? Ci salverà il soldato che non la vorrà”. Si tratta tuttavia di un drammatico dilemma e nessuno può onestamente dire quale sarebbe la sua decisione nel momento decisivo. Quindi prepariamo la pace se vogliamo la pace. Sappiamo già cosa fare: il sedicesimo obiettivo di sviluppo sostenibile che il mondo si è impegnato a raggiungere entro il 2030 (!) recita: “Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli”. Quando inizieremo a prendere sul serio gli impegni assunti a livello internazionale?