Che fine ha fatto la meritocrazia?
Dal Carmine fino ai campi della Serie B, nel cui campionato vanta il record di presenze (485), e alle panchine del massimo campionato come allenatore. Un’esperienza lunga 50 anni che Gigi Cagni ha deciso di raccontare nel suo nuovo libro “Rànget! Cinquant’anni a imparare calcio”, che uscirà il prossimo 5 dicembre.
Gigi, sei nato in Carmine, hai giocato 13 anni nel Brescia e hai chiuso la carriera con una grande cavalcata per la salvezza da allenatore. Che cosa rappresenta per te Brescia?
Brescia è tutto: la testa, la coda e il cuore della mia vita sportiva. Qui sono cresciuto, qui ho imparato cosa significa essere uomo e atleta. Oggi ho 75 anni e voglio dedicarmi al sociale e all’educazione, perché lo sport deve tornare a parlare il linguaggio dei valori, non della comodità e del guadagno facile.
Cosa ti stupisce di più nei giovani di oggi?
Mi stupisce il comportamento, ma spesso la colpa è dei genitori. Vedo maleducazione, mancanza di valori, atteggiamenti viziosi. Oggi manca il rispetto delle regole. Lo sport dovrebbe educare, ma a volte fallisce.
Il calcio è cambiato?
Sì, tantissimo. E in peggio. Non vedo più giocatori con grande personalità. Non percepisco più quella passione interna che fa lottare, sacrificarsi, mettersi al servizio del gruppo. Vengo dalla scuola di Gigi Messora: non potevamo nemmeno gridare se subivamo un calcio. Quella durezza ti formava.
Il tuo libro nasce proprio da queste osservazioni?
Sì. Bisogna tornare a insegnare il valore del sacrificio. Tutti vedono i successi, pochi vedono cosa c’è dietro. Faccio l’esempio di Sinner: dietro ogni sua vittoria c’è tanto sacrificio, a 14 anni andò a vivere da solo a Montecarlo, mai serate di divertimento ma allenamenti da quattro o cinque ore. Senza sacrificio non si va da nessuna parte. Ma questo lo dicono in pochi.
E chi dovrebbe educare davvero i ragazzi?
Non solo gli allenatori. Tutto l’ambiente è cambiato: procuratori, famiglie, tifosi che chiedono, pretendono e urlano. Non esiste nessuna meritocrazia, non si valorizza la fatica, ma gli interessi delle società. Io non ci sto più. E per questo ho smesso di allenare.
Il tuo libro è, quindi, una denuncia, ma anche un invito?
Esatto. Siamo in discesa libera e qualcuno deve mettere un freno. Vedo troppa gente che ha rinunciato a far sentire la propria voce. Non possiamo continuare a far finta di niente. Se i genitori pensano più ad accontentare e viziare i figli piuttosto che a dare punti di riferimento, qualcuno deve pur cominciare ad andare contro corrente.
Quale potrebbe essere il linguaggio giusto per tornare a educare?
Solo uno: l’esempio personale. Non ha bisogno di spiegazioni, lo vedono tutti. Da lì nasce un modo nuovo di vivere e di costruire il mondo. Le parole servono poco se non sono sostenute dai fatti.
Stai combattendo contro i mulini a vento?
La mia battaglia l’ho fatta da calciatore, da figlio, da padre e da nonno. E continuo a farla. Non starò zitto: questo è il senso del libro. Dire quello che penso senza paura, perché è l’unico modo per restare coerenti.
Che futuro vedi per i giovani nel calcio moderno?
Penso al Mondiale del 1982: Bearzot mise in campo Bergomi a 18 anni perché aveva fame, aveva gli occhi della tigre. Oggi quella fame la vedo meno. Sembra che i giovani fatichino a dire quello che pensano, a metterci la faccia. Sono condizionati dal cellulare e dal giudizio dei social. Nessuno nasce campione: servono motivazioni, sacrifici e coraggio. E ai ragazzi dico: non smettete mai di lottare, anche quando gli adulti sono dei cattivi maestri.