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Brescia
di +LUCIANO MONARI 06 mag 2016 00:00

Un unico Dio da adorare e servire

In concomitanza con la marcia interreligiosa che si è tenuta a Brescia il 4 maggio il vescovo Monari propone interessanti spunti di riflessione

Nel contesto culturale contemporaneo, nel quale mondi diversi s’incontrano ed esperienze diverse s’intrecciano, è inevitabile che ci si interroghi sulla molteplicità delle religioni e sull’atteggiamento che si deve prendere di fronte ad esse. La prima domanda che ci si pone è questa: il Dio dei cristiani è lo stesso Dio dell’ebraismo e dell’Islam o no? La risposta a questa domanda non può che essere duplice: esiste un solo Dio ed è questo Dio che ebrei, cristiani e mussulmani intendono adorare e servire.
In questo senso chiunque adori Dio intende adorare Colui che ha creato e sostiene e governa questo mondo. E siccome non ci sono due o più creatori, non ci sono due o più Signori, il Dio che adoriamo è il medesimo. Ma l’adorazione è un atto umano, la religione è convinzione e azione dell’uomo; ci possiamo chiedere allora se l’adorazione, la religione con cui noi ci rivolgiamo a Dio è la stessa per un ebreo, un cristiano, un musulmano. Formulata così la domanda, dobbiamo necessariamente rispondere di no. Per noi cristiani Gesù Cristo è Figlio di Dio e quindi rivolgendoci a Dio possiamo (e dobbiamo) chiamarlo: “Il Padre del nostro Signore Gesù Cristo”.

Per un musulmano parlare di Dio Padre e di un Figlio di Dio è cosa assurda perché sembra (erroneamente) si neghi l’unicità assoluta di Dio. Si potrebbero notare molte altre differenze, ma questa sola è sufficiente per dire: se un cristiano non dice che Gesù è Figlio di Dio non è un cristiano; e se un musulmano dice che Gesù è Figlio di Dio, non è musulmano. Dovrebbe bastare questo per dire che è contraddittorio fare insieme le due affermazioni: “pratico la religione cristiana” e “pratico la religione musulmana”. Siamo davanti a un’alternativa… Si potrebbe obiettare: non basta sapere che Dio è uno solo per affermare che i due atti di adorazione sono equivalenti? E cioè: noi adoriamo Dio in due modi diversi, ma sappiamo che Dio è più grande dei nostri modi di adorare; consideriamo allora il modo di adorare come relativo e invece il rivolgerci religiosamente a Dio come l’assoluto. Il ragionamento è seducente, ha una sua verità, ma non risolve del tutto il problema; per due motivi.

Il primo è che noi possiamo rivolgersi al “Dio in sé” solo attraverso le idee, le immagini, i giudizi, i riti, le relazioni concrete della nostra vita. I Greci si riferivano a Dio attraverso la figura di Zeus; ma Zeus è un pessimo “Dio” e se, venerando Zeus, m’illudo di adorare comunque “Dio in sé”, rischio grosso. Il riferimento a Zeus, infatti, contiene tutta una serie di narrazioni di passioni, adulteri, guerre, uccisioni… che hanno come soggetto Zeus. Impossibile pensare che, se Zeus si permette l’adulterio, l’adulterio sia proibito per me. Insomma, la “figura” del Dio che adoriamo plasma inevitabilmente la vita di noi che lo adoriamo; non è quindi la stessa cosa adorare Dio pensandolo secondo l’immagine di Zeus o adorare Dio pensandolo secondo l’insegnamento di Gesù. È possibile anche pensare (sbagliando!) che Dio abbia la forma del potere; ma se adoro Dio come “potere”, il potere diventerà il valore supremo della vita e tutti gli altri valori troveranno collocazione secondo la relazione che hanno con il potere. Per questo è importante avere un’idea, un’immagine corretta di Dio. Le diverse immagini di Dio fondano modi diversi di essere religiosi e quindi producono modi diversi di vivere.

Secondo motivo: ebraismo, cristianesimo e islam si presentano come religioni che hanno origine da una rivelazione; presumono, queste tre religioni, di essere la risposta dell’uomo a una comunicazione di Dio che ha parlato e, parlando, ha determinato il modo in cui l’uomo deve pensarlo, adorarlo e servirlo. Se Dio mi si è rivelato secondo una certa modalità, posso forse inventare per conto mio una modalità diversa per rivolgermi a Lui? Posso pensare che tutte le modalità siano possibili ed egualmente buone? È questa la ragione per cui questa tre religioni hanno dei criteri per distinguere se una forma di religiosità è corretta o no, se è coerente con la rivelazione di Dio o no: i 13 principi di Maimonide per l’ebraismo, ad esempio; il “credo apostolico” per i cristiani; i “cinque pilastri” con la shahada (professione di fede), per i musulmani. Non ci può essere allora nessun rapporto tra le religioni? Certo che ci può essere e anche qui almeno per due motivi.

Anzitutto chi pratica la religione è una persona umana e per ogni persona umana vivere significa crescere verso una maturità personale che è simile per tutti e che consiste nel diventare attenti, intelligenti, razionali, responsabili, buoni. Questa struttura di fondo, che condividiamo con tutti, fonda la possibilità di dialogare, di capirci, di confrontarci gli uni con gli altri, di condividere progetti sulla società che vogliamo edificare, di stringere patti di collaborazione.In secondo luogo, come abbiamo detto, ci sono elementi che separano inevitabilmente tra loro le diverse forme di religione; ma ci sono anche elementi che le avvicinano e le uniscono. Un illustre studioso, F. Heiler, ha fatto un elenco di ciò che unisce le diverse religioni. Primo. La realtà del trascendente, del divino che è Altro. Secondo. Il divino trascendente è nello stesso tempo immanente nei cuori umani.Terzo. Questa realtà trascendente e immanente insieme è per l’uomo il più grande bene, la più alta verità, giustizia, bontà, bellezza. Quarto. La realtà del divino è ultimamente amore. Quinto. La via che conduce l’uomo a Dio è il sacrificio (cioè la purificazione, la preghiera). Sesto. La via verso Dio è nello stesso tempo una via verso gli altri. Settimo. La via suprema per andare a Dio è l’amore. Proprio perché tutti questi elementi sono comuni, è possibile un riconoscimento reciproco delle persone religiose, un dialogo tra le persone religiose, una collaborazione anche nell’ambito della religione. Naturalmente, mentre si dialoga con gli altri, bisogna che ciascuno mantenga ben vivo il senso di ciò che la sua forma religiosa ha di proprio, non condiviso e non condividibile dagli altri.

Le tensioni che si sono avute nel corso della storia e che hanno portato (e portano) a violenze e crudeltà disumane non dipendono dalla religione correttamente intesa ma dalla religione trasformata in “instrumentum regni” cioè in uno strumento per acquisire ed esercitare un potere nel mondo – potere politico, economico, supremazia culturale o simili. Quando si ha paura di essere fagocitati dall’altro o quando si vuole fagocitare l’altro, allora la religione diventa la giustificazione più formidabile perché si fonda sul valore supremo, Dio stesso. Ma in questo caso si verifica un capovolgimento perverso: anziché servire Dio, ci si serve di Dio per la propria grandezza; per una persona davvero religiosa non c’è sacrilegio più grave.
+LUCIANO MONARI 06 mag 2016 00:00